Meditazione sulla Parola della 5 Domenica ordinario anno B
Vi è, purtroppo, un grande mistero che attraversa la nostra vita: quello della sofferenza, del dolore, che non è solo fisico. Di fronte a questo mistero ci chiediamo perché … cerchiamo risposte …, cerchiamo speranza e tocchiamo tutta la fragilità, la debolezza che accompagna la nostra condizione umana. Come Giobbe guardando ai giorni che scandiscono la nostra esistenza ci viene da dire: … “i miei giorni scorrono più veloci di una spola, svaniscono senza un filo di speranza. Ricordati che un soffio è la mia vita”…
Allora eccoci qui, davanti al Signore. Come le folle del Vangelo che : “Gli portavano tutti i malati e gli indemoniati” … presentiamo a Lui tutte le nostre infermità, quelle del corpo e quelle dello spirito, ma , soprattutto, quell’ infermità terribile che si chiama peccato!
Di fronte al dolore, alla sofferenza i nostri tentativi di dare risposta naufragano o nel fatalismo, o nel pessimismo, o nella rassegnazione, non di rado nella disperazione.
Di fronte al peccato non ci resta che abbandonarci nella misericordia del Signore.
Simon Weil scrive:
“ La sola fonte di chiarezza abbastanza luminosa per illuminare il dolore è la croce di Cristo. Non importa in quale epoca, non importa in quale paese, dovunque ci sia un dolore, la croce di Cristo non è che la verità”. La croce di Cristo è il grande atto d’ amore con cui siamo riscattati dal peccato e dalle sue conseguenze
Vi propongo, perciò la testimonianza di una mamma la cui figlia ha subito un’ operazione importante.
“Sto male! Voglio morire! Non sopporto più i dolori: soffrire è troppo brutto!”.“Calmati Serena – dicevamo noi –fra poco tutto finirà. Ogni ora che passa è un sollievo e andrai migliorando… “Una tale crisi non ce la aspettavamo. E non sapevamo che fare: chiamare gli infermieri non serviva, perché le erano già stati somministrati gli antidolorifici; da poco inoltre le avevo aggiustato i cuscini. Che fare, dunque, come confortarla? Non si trovavano parole che servissero a calmarla: alle sue grida di sconforto, ogni nostro grido, discorso era inutile, ogni tentativo di consolarla provocava in lei ancora più fastidio. Come se il suo dolore fosse troppo distante perché noi potessimo scorgerne almeno i contorni. Perché potessimo intuirlo e parlarne; troppo grande per poterlo in qualche modo lenire: un dolore non solo intenso, ma d’altra natura.
Pensai, allora, che alle persone in punto di morte, o che soffrono molto, si danno i conforti religiosi. Non avevo idea di cosa si dicesse in quei momenti, ma capii che proprio non c’era altro da dire; non c’erano parole più adatte di quelle preghiere, di quelle implorazioni di aiuto.
“Serenella, vuoi che ti legga qualche pagina del Vangelo?”, le chiesi timorosa, sperando di aver azzeccato, perché con lei non si era sicuri. “Sì, mamma, leggimi il Vangelo”, rispose lei con un tu di resa e di abbandono. Mio marito corse ad acquistarne uno dai monaci della chiesa dell’ospedale e dopo qualche minuto io avevo tra le mani un parallelepipedo piccolo e pienotto, con un mezzo sole rosso fuoco e le dune del deserto in copertina.
“Cosa vuoi che ti legga?”, domandai a Serenella, questa volta timorosa di non riuscire a trovare con facilità il brano che lei mi avrebbe chiesto e mortificata per la mia ignoranza.
“Leggimi la Passione”, rispose
Allora sedetti vicino a lei e cominciai a leggere. Ho un ricordo vivo di quel momento. Tenevamo accesa una piccola lampada, dalla fioca luce giallognola proiettata sul muro, alle spalle di Serenella, affinché la luce non la disturbasse; lei stava seduta e poggiava sui cuscini tutto il tronco e il capo, da cui partiva la lunga chioma bruna che contrastava con il bianco delle federe. La posizione verticale, il volto lucido di lacrime e reclino, i lunghi capelli sparsi, l’ago conficcato nella vena, [ i tubi di drenaggio che fuoriuscivano da ogni parte del busto, quel sondino che aveva nel naso, i fili di Kirschner, che trattenevano] le costole operate, e poi quel ruvido camicione da sala operatoria che aveva ancora addosso, formavano le parti ben combinate di una struggente scena di dolore. Tutto inoltre rappresentava un dramma simile a quello che stavo leggendo. Ciò che era descritto in quelle pagine lo avevo davanti, rivissuto ancora una volta, con simile intensità e innocenza”.
Signore…
Ci sono notti, nella nostra vita,
in cui la sofferenza sembra insormontabile.
Un dolore lancinante,
la sensazione dell’impotenza,
l’assenza di speranza.
Imprigionati da catene invisibili,
consegnati da mali incurabili,
arrestati nella nostra voglia di vivere.
Non importa più chi sia il colpevole.
Resta soltanto l’amarezza dello schiaffo,
il senso del tradimento,
la privazione di ciò per cui siamo vissuti.
Con le ultime forze
Investiamo Dio delle nostre angosce,
supplicando: ”Passi da me questo calice di dolore”.
o urlando disperazione: “Perché mi hai abbandonato?”.
Tu hai provato tutto questo all’ennesima potenza,
concentrato nelle ore più lunghe e tormentate della tua vita.
In più sentivi il peso di una cocente ingiustizia
E la preoccupazione angosciante
di sciupare con l’infedeltà il tuo sacrificio.
Ma hai concluso il tuo percorso abbandonandoti in Lui.
Per questo ora ci comprendi ancor di più
E ci tendi la mano fino all’alba.
“Coraggio. Salta con me.
E sarà Pasqua”
Allora Signore abbiamo ancora bisogno che tu annunci per le strade della Galilea di questo mondo e del mio cuore la presenza del Regno di Dio fra noi, dell’ amore di Dio che si fa compassione, l’ unica risposta alla nostra ricerca di risposte. Quella Parola che suscita la fede e accende la speranza che illumina la fragilità e la provvisorietà della nostra condizione! Così come Giobbe anche noi diremo:
Comprendo che tu puoi tutto e che nessun progetto per te è impossibile. Chi è colui che da ignorante, può oscurare il tuo piano? Davvero ho esposte cose che non capisco, cose troppo meravigliose che non comprendo. Ascoltami e io parlerò, io t’ interrogherò e tu mi istruirai! Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto.Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere.( dal libro di Giobbe cap. 42 )
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