La necessità di una configurazione in termini di status anche dei rapporti di coppia tra persone dello stesso sesso non trova fondamento nell’ordinamento dell’Unione Europea o nell’adesione del nostro Paese ad altre organizzazioni internazionali, segnatamente alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Infatti, ai sensi dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamenti dell’Unione Europea “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”. Secondo l’art. 12 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, poi, “l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi fondamentali che regolano l’esercizio di tale diritto”.
Nessuna Carta dei diritti ha dunque cancellato il requisito della diversità di sesso per il matrimonio. Al riguardo, piuttosto, quei documenti normativi rinviano ai singoli ordinamenti nazionali. È vero invece – ma a tal fine non è certo necessario far riferimento al contesto istituzionale europeo – che non sono ammesse discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale. Ma il rispetto di questo principio fondamentale non implica certo la necessità di estendere anche alle coppie formate da persone dello stesso sesso la disciplina del matrimonio né di prefigurare per le stesse una forma ad hoc di riconoscimento nella forma istituzionale dello status.
È sicuramente vero invece che, per la Corte di Strasburgo, l’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nel sancire che “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare”, impone ai singoli Stati l’adozione di misure positive volte a garantire il rispetto della vita privata o familiare anche nella sfera dei rapporti interpersonali. Tuttavia, secondo la stessa Corte, nell’attuazione di tale obbligo gli Stati godono di un certo “margine di discrezionalità”. E in tale margine, sempre per la Corte di Strasburgo, rientra anche la scelta di estendere il matrimonio alle coppie formate da persone dello stesso sesso.
È vero anche che, con la recente sentenza Oliari del 21 luglio 2015, la Corte di Strasburgo ha riconosciuto che “il Governo italiano ha ecceduto il suo margine di discrezionalità e non ha ottemperato all’obbligo positivo di garantire che i ricorrenti disponessero di uno specifico quadro giuridico che prevedesse il riconoscimento delle unioni omosessuali”. Neppure in questa occasione la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha però affermato che questo dovere positivo deve essere adempiuto con l’introduzione del matrimonio tra persone dello stesso sesso né che il riconoscimento in questione deve realizzarsi nella forma dello status. Certe statuizioni, del resto, avrebbero messo in discussione tutta la precedente giurisprudenza della Corte.
Emanuele Bilotti – Professore di diritto di famiglia nell’Università Europea di Roma, in: In Terris. it