Una vigilia di Natale un Babbo Natale che si aggira per le vie di una città portando in tre case un enorme pacco. Per una coppia di sposi anziani il regalo è una bambina, che si getta sul letto ad abbracciarli, forse la figlia che non hanno mai avuto o la nipote che non vedono mai. Per una ragazza affranta e sola è un gruppo chiassoso di amici. Per un ragazzo altrettanto solo è invece un bel giovane, l’amore perduto o sognato. Sullo sfondo, da uno schermo televisivo spunta il caschetto biondo platino della 75enne Raffaella Carrà, mentre il suo canto accompagna lo scorrere dei quadretti di vita. Si tratta del videoclip della canzone “Chi l’ha detto”, che ha fatto da lancio al doppio cd della Carrà “Ogni volta che è Natale”, uscito a fine del 2018 e che ripropone una miscela di elementi che ha caratterizzato la carriera della madrina di tutte le soubrette televisive: i buoni sentimenti, l’allegra bonomia da donna della porta accanto – agli inizi ragazza, poi donna matura, oggi
elegante anziana – e messaggi tossici in dosi omeopatiche.
ICONA GAY
«Canto il mio Natale per le famiglie omosessuali perché deve essere una cosa normale» si intitolava l’intervista rilasciata dalla Carrà al Corriere della Sera a fine novembre. «Ho cominciato a capire il mondo gay durante la prima Canzonissima», ha raccontato sempre la Carrà, «ricevevo lettere da ragazzi gay che non si sentivano accettati specialmente in famiglia. E mi sono chiesta: possibile che esista questo gap tra genitori e figli? Poi nel mondo dello spettacolo ci sono tante persone omosessuali e così sono diventata icona gay mio malgrado. Da anni mi chiedevano di prendere parte alle sfilate per l’orgoglio gay e così l’anno scorso sono andata a Madrid alla giornata mondiale del gay pride e li ho beccati tutti in una notte». In effetti la Raffaella nazionale, che da anni ormai lontani è stata eletta dal mondo Lgbt nostrano una sua icona, nel giugno del 2017 si è recata presso l’ambasciata italiana della capitale spagnola a ritirare il World Pride Award, che le ha dato lo status simbolico di ambasciatrice Lgbt a livello internazionale. «Quando si parla delle adozioni a coppie gay ma anche etero» ha commentato la Carrà in quell’occasione, «faccio un pensiero: ma io con chi sono cresciuta? Mi rispondo: con due donne, mia madre e mia nonna. Facciamoli uscire i bambini dagli orfanotrofi, non crescono cosi male anche se avranno due padri o due madri. Io le ho avute. Sono venuta male?».
DALLA ROMAGNA CON FURORE
Raffaella Carrà è il nome d’arte di Raffaella Pelloni. Nasce a Bologna il 18 giugno del 1943 da padre romagnolo, gestore di un bar di Bellaria, vicino a Rimini, e da madre di origini siciliane. I due si lasciano poco dopo le nozze: « Mia mamma Angela Iris fu una delle prime a separarsi nel dopoguerra. Non si risposò più. Nonna Andreina era rimasta vedova di un poliziotto di Caltanissetta. Mi vergognavo di non avere una figura maschile. Mio padre è stato un uomo buono e intelligente, ma inaffidabile. Non aveva alcun senso della famiglia». La piccola Raffaella segue avidamente la trasmissione Rai Il Musichiere, attratta dal mondo dello spettacolo, si sposta a Roma e a 17 anni consegue il diploma al Centro sperimentale di cinematografia, studiando anche presso l’Accademia nazionale di danza. Neanche ventenne inizia ad affacciarsi a teatro, in radio, al cinema. Ma il decollo arriva a 26 anni, tra il 1969 e il 1970, con la partecipazione al varietà televisivo Io, Agata e tu, dove la Carrà lancia un nuovo stile di presenza femminile, scattante, briosa e anche qualcosa di più. Il termine soubrette deriva dalla tradizione teatrale francese, per indicare ruoli femminili insieme brillanti, civettuoli e maliziosi. Il che si attaglia al nuovo personaggio che esplode sulla Rai, che segna uno stacco dalla femminilità algida di Mina, quella fanciullesca di Rita Pavone o da quella straniera, quindi vagamente irreale e irraggiungibile, delle gemelle Kessler. Scrive la critica d’arte e musicale Virginia Villo Monteverdi: «Raffaella balla, canta e si muove come una trottola e svela parti del corpo che normalmente in televisione venivano nascoste per pudore. A Canzonissima 70 si presenta con un corpo di ballo sulle note di Ma che musica maestro, e regala molti cambi d’abito estremamente sexy e poco coprenti che mettono in mostra l’ombelico, con scollature vertiginose». Fioccano le polemiche ma anche gli applausi compiaciuti.
IL SESSO LIBERO NAZIONALPOPOLARE
«Nel 1971, sempre a Canzonissima, la giovane ballerina e cantante si esibisce nel più famoso ballo erotico della televisione italiana: il Tuca Tuca, ballato in coppia con Enzo Paolo Turchi, dove lei indossa un mini abito sexy pieno di lustrini. Un tocca tocca generale con mosse maliziose, frasi piccanti «mi piaci ah ah, mi piaci… Mi piace! E quando mi guardi lo so cosa tu vuoi da me». Un successo inaspettato, che trasforma la canzone in un tormentone febbrile». Questa sensualità paesana e provocatoria, che sa di balera ma anche di pulsioni sessantottine, diventa come un filo rosso. «Il tema principale delle sue canzoni è l’amore libero e spensierato, quello fugace ed estivo della riviera romagnola, quello passionale che deve essere vissuto in modo un po’ ingenuo, quello di “a far l’amore comincia tu” o di “come è bello far l’amore da Trieste in giù”, senza rimpianti o paure perché se un uomo non va bene “trovi un altro più bello che problemi non ha”. Raffaella invita la donna a essere libera di usare il proprio corpo come preferisce, sempre nei limiti della decenza ovviamente, ma emancipa la sessualità femminile rendendola simile a quella maschile, lasciando il tutto avvolto dalla speranza di un amore, breve o duraturo che sia».
Ancora, fa notare Villo Monteverdi: «Nella vastissima e poco conosciuta discografia di Raffaella non si possono dimenticare canzoni come Pedro, pezzo che ora spopola nei balli di gruppo ma che in realtà parla di un’avventura sessuale della cantante con un ragazzino minorenne conosciuto a Santa Fe (“Altro che ragazzino, che perbenino, sapeva molte cose più di me, mi ha portato tante volte a veder le stelle, ma non ho visto niente di Santa Fè”); oppure Maracaibo, anch’essa canzone da ballo di gruppo ma che racconta storie di prostituzione e traffico di droga con un vago sapore colombiano da telenovela. Brani come Si ci sto o Troppo ragazzina, canzoni con riferimenti al desiderio sessuale, mostrano sempre una certa disponibilità femminile alle avventure e ai piaceri del sesso, mettendo anche in luce le fantasie romantiche delle ragazze acqua e sapone. O ancora Male e Rumore che indicano anch’essi una presa di coscienza della libertà del corpo femminile dimostrando all’uomo che la donna non è sempre consenziente e può decidere lei quando e come provare piacere, con chi stare o non stare». Insomma la Carrà «è riuscita a trasformare il sesso libero e spensierato in una canzone ballabile, in una sigla orecchiabile, fatta di femminismo luccicante e televisivo a cui si unisce il buon senso popolare».
SATANA IN PRIMA SERATA
L’approdo al ruolo di ambasciatrice della causa Lgbt sarebbe stato solo l’ultimo passo di un balletto pluridecennale. Ma un balletto di cui la Carrà è stata davvero consapevole protagonista? Difficile dirlo. Come nella commedia francese, dove la soubrette è sì in primo piano, ma spesso giocata dagli eventi, così viene da pensare sia stato anche per la più famosa delle soubrette televisive italiane. Un passaggio chiave della carriera della Carrà e stato certamente la conoscenza di Gianni Boncompagni (1932-2017), autore radiofonico e televisivo, paroliere, pigmalione di lolite e avvenenti attrici, tra i principali iniettori di libertinismo e nonsense nei palinsesti per il grande pubblico. I due si conobbero nel 1969, proprio quando la Carrà fece il grande salto sul piccolo schermo, e rimasero sentimentalmente legati per 11 anni, con un sodalizio artistico che durò molto più a lungo.
La canzone Satana, che la Carrà nel 2008 cantò in prima serata sulla Rai, nel corso del fortunato programma Carramba! Che fortuna («Satana, volgarità, Satana, fatalità / Portami all’inferno, Pago per amore, lascio tutto e vengo via con te/ Magica divinità, Brivido di libertà, anima senza pietà, lasciami per carità!») aveva tra i suoi autori l’immancabile Boncompagni.
di Luigi Piras in Basta Bugie