QUEL SINGOLARE “DISCERNIMENTO” MADE IN BUENOS AIRES

Il 5 settembre, una lettera di papa Francesco – la cui autenticità è stata poi confermata da “L’Osservatore Romano” – elogiando i criteri applicativi di “Amoris laetitia” proposti dai vescovi della regione ecclesiastica di Buenos Aires, oltre ad affermare che l’esortazione non è passibile di altre interpretazioni, ha richiamato l’importanza sul discernimento come la più trascurata delle quattro attività in cui si articolerebbe la pastorale.

Il punto merita attenzione, perché il termine “discernimento” può essere impiegato in due accezioni distinte.

Nella sfera morale, la coscienza applica i princìpi morali “mediante un discernimento pratico delle ragioni e dei beni” nelle diverse situazioni (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1780).     

Nella vita di grazia, assistita dai lumi soprannaturali dello Spirito Santo, “il discernimento smaschera la menzogna della tentazione: apparentemente il suo oggetto è ‘buono, gradito agli occhi e desiderabile’ (Gn 3, 6), mentre, in realtà, il suo frutto è la morte” (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2487).

Il discernimento prospettato dai vescovi argentini e approvato dal papa è costruito e presentato come un esempio della prima accezione. Ma contrasta in modo stridente con le esigenze della seconda.

Gli “Esercizi spirituali” di sant’Ignazio menzionano spesso il “discernimento degli spiriti”, necessario per comprendere quali pensieri e ispirazioni vengano da Dio, e quali dal diavolo o dalla volontà cattiva del singolo.

Le regole pratiche sono esposte nei nn. 314-36. Ciascuna di esse merita di essere meditata, ma particolarmente quelle sulla tentazione che si presenta sotto apparenza di bene, con pensieri che all’inizio sono buoni e santi, ma che a poco a poco, nel loro corso, prendono una piega non retta:

“Se il principio, mezzo e fine è tutto buono e tende a ogni bene, è segno di angelo buono; ma se nel corso dei pensieri suggeriti si va a finire in qualche cosa cattiva o distrattiva o meno buona di quella che l’anima si era prima proposta di fare, o la infiacchisce o inquieta, o conturba l’anima, togliendo la sua pace, tranquillità e quiete che prima aveva, è chiaro segno che questo procede dal cattivo spirito, nemico del nostro progresso e salvezza eterna” (n. 333).

Il discernimento prospettato dai vescovi argentini comincia egregiamente. Si apre con un fedele in atteggiamento penitente, intenzionato a riesaminare tutta la propria esistenza alla luce del Vangelo e a mettere in pratica la virtù della carità (cfr. il n. 3 del testo).

Prosegue affermando che, anche quando non vi sia l’impegno del divorziato risposato a vivere in continenza, in certi casi l’accesso ai sacramenti può essere consentito e può aiutare il fedele a progredire spiritualmente, a “seguir madurando y creciendo con la fuerza de la gracia” (n. 6).

Ma – e qui sta il punto – omette proprio una verifica di questo auspicato progresso spirituale. Le circostanze indicate ai nn. 7 e 8 si riferiscono tutte al passato, al fallimento del rapporto precedente, tranne il caso-limite di chi presenti la nuova situazione “come se fosse parte dell’ideale cristiano”: ma costui, di sicuro, non è un penitente!

Sant’Ignazio ci avverte che esiste la possibilità concreta che buoni pensieri e rette intenzioni, nel loro progressivo svolgimento, rivelino un’origine non buona e non santa. Questo può valere anche per il desiderio di ricevere i sacramenti, soprattutto se non è accompagnato dalla contrizione, che, se vera, viene sempre da Dio.

Un vero discernimento dovrebbe includere – e ingiungere al confessore o al direttore spirituale – la revisione della scelta di ammettere il divorziato risposato alla comunione eucaristica sebbene continui a vivere in una situazione di peccato grave (ritenuto non mortale), se “ex post” si vede che egli si impigrisce spiritualmente, sviluppa un attaccamento crescente al peccato, non progredisce verso l’osservanza piena della legge di Dio, ma piuttosto se ne allontana.

Giustamente, i vescovi argentini notano che non si deve parlare di “permesso” di accedere ai sacramenti, ma di un processo di discernimento (n. 1).

Però, di fatto, propongono qualcosa che o non è un processo, o non è discernimento.

Infatti, o bisogna badare soltanto alle circostanze che hanno fatto sorgere la “situazione irregolare”: e allora non si ha un processo, ma un’assoluzione sacramentale impartita una volta per tutte, di fatto un “permesso”.

Oppure si continua a seguire la vita religiosa e spirituale dell’interessato, cercando di favorirne la crescita – e in questo senso vi è un processo – ma, ignorando la natura stessa dell’uomo decaduto, non si fa spazio al discernimento ignaziano. Che questo sia presupposto ma taciuto non mi sembra plausibile.

In un mondo, anche cattolico, sempre più convinto che le buona intenzioni giustifichino tutto e portino sempre al bene, si può senz’altro concordare sulla necessità e l’urgenza di tornare a saper discernere, sull’importanza di quest’arte che troppi pastori ignorano o trascurano.

Ma se l’ideale di discernimento inteso da Jorge Mario Bergoglio coincide con quanto sembra emergere dai “Criteri” dei vescovi argentini, sarà lecito domandarsi, con una certa preoccupazione, fino a che punto questo ex-superiore provinciale della Compagnia di Gesù abbia appreso le lezioni di quel maestro di ascetica che è sant’Ignazio di Loyola.

di Guido Ferro Canale

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