Alcune considerazioni di Samir Khalil Samir gesuita nato in Egitto, vissuto in Libano, grande islamologo e docente all’Université Saint Joseph di Beirut e al Pontificio istituto orientale di Roma.
Ma buona volontà e predisposizioni naturali e culturali non bastano. Per un’integrazione reale servono innanzitutto regole chiare: «Mi ricordo che in viale Jenner a Milano il venerdì i musulmani bloccavano la circolazione per pregare, come si fa in tanti paesi musulmani», continua il padre gesuita. «Questo può avvenire una o due volte all’anno, in casi eccezionali, chiedendo il permesso alla polizia. Ma non ci si può impossessare della strada tutti i venerdì, per di più senza chiedere il permesso. Chi arriva in Italia da un altro paese deve rispettare le regole». È quindi necessario che «chi arriva qui impari la lingua, anche le donne. Nella tradizione musulmana tendono a stare in casa e a parlare solo la lingua di origine, ma bisogna aiutarle. Negli Stati Uniti ad esempio non ti accettano come immigrato se non hai imparato prima l’inglese».
Il comportamento sociale
Queste regole, che possono sembrare un ostacolo all’accoglienza, sono in verità «un modo per aiutare l’immigrato, non per andare contro di lui. Un musulmano deve sapere che in Italia non può trattare sua moglie come farebbe in Arabia Saudita. Non può tenere le figlie rinchiuse e i figli mandarli liberamente in giro. Se non assume questi aspetti della nuova cultura, un immigrato non potrà integrarsi e di conseguenza non sarà mai felice. Le regole servono soprattutto a lui».
Poche settimane fa una scuola svizzera del cantone Basilea Campagna ha autorizzato due musulmani, contro la tradizione locale, a non stringere la mano all’insegnante donna, perché la religione lo proibirebbe. «Questo è esattamente l’esempio che non dobbiamo seguire», continua l’islamologo. «La stretta di mano a scuola è un’usanza in quel cantone svizzero e per viverci tutti devono adeguarsi a quella cultura, nella misura in cui non vìola la persona umana, ovviamente. Se questo non succede, né i musulmani né gli svizzeri potranno essere felici. E allora è meglio che tornino a vivere nel loro paese di origine. Anche perché fino a vent’anni fa la mano alle donne i musulmani la potevano dare, prima che arrivasse l’islam desertico radicale dall’Arabia Saudita».
La distinzione tra religione e comportamento sociale è fondamentale: «È vero che a livello di fede non si può imporre niente, ma a livello socio-culturale invece si possono fare imposizioni. L’Europa non ha preso coscienza di quanti conflitti nascono quando si rifiuta l’integrazione socio-culturale. Certe cose vanno insegnate fin dall’infanzia».
L’Italia è ancora in tempo per seguire questa strada virtuosa. Ma ci sono accorgimenti che deve prendere: «La libertà di culto va garantita a tutti, nessuno escluso», mette subito in chiaro padre Samir. «Ma questo non significa ad esempio che sia lo Stato a dover costruire le moschee. Tocca ai musulmani del posto farlo e senza farsi finanziare dall’estero: perché chi paga comanda. Come in Norvegia e Austria, sono i fedeli locali a dover raccogliere i fondi dentro il paese per costruirla e loro ne sono responsabili».
Altre precauzioni sono dettate dalla realtà dell’islam, che «include tutto: non c’è distinzione tra religione, politica, società e cultura. E le moschee sono il luogo naturale attraverso cui l’islam radicale, per mezzo dei discorsi degli imam, penetra nel mondo musulmano. Non è una teoria, è un fatto, è successo ovunque nel mondo. Bisogna controllare le moschee». Come? «La preghiera ovviamente deve essere fatta in arabo, perché è obbligatorio. Ma un conto è il rito, un conto è il discorso dell’imam, che ha una parte spirituale e una socio-politica. Il discorso dell’imam deve per forza essere fatto in italiano, così che possa esserci un controllo. Anche questo va nell’interesse dei musulmani stessi, che così sono aiutati a capire la lingua che si parla nel paese in cui vivono».
Controllare prediche e biblioteche
C’è una terza cosa a cui prestare attenzione. «Da trent’anni quasi tutte le moschee hanno anche una libreria con testi arabi e islamici. Chi conosce l’arabo ed è andato a controllare, ha scoperto che molti testi sono di autori radicali, pieni di contenuti aggressivi. Bisogna avere la possibilità di entrare nelle librerie e verificare». Così però non si alimenta la cultura di sospetto verso tutti i musulmani? No, insiste il docente, «è il contrario: così lo Stato viene in aiuto dei musulmani, evitando che gente estranea, con scopi diversi, si infiltri nelle comunità e le radicalizzi. L’aiuto del resto è necessario: tutti i musulmani condannano l’Isis, eppure migliaia di giovani lo raggiungono. Perché? Perché attraverso molte moschee si fa propaganda per convincere i cuori che quello dell’Isis sarebbe il vero islam».
È solo seguendo regole precise che l’integrazione potrà avere successo. Ma cosa significa questa parola che viene così spesso abusata nel discorso pubblico? Il docente gesuita ha un’idea molto chiara: «Chi arriva in Italia deve vivere da italiano. Quando un immigrato impara e assimila la cultura italiana, avrà una marcia in più perché disporrà anche della propria cultura di origine. Ne avrà due e questo è un vantaggio rispetto agli abitanti indigeni».
L’integrazione allora non è una diminuzione: «Chi arriva in Italia deve comportarsi da italiano, ma potrà accrescere la nuova cultura con elementi della sua, sempre che non siano in opposizione ovviamente. Questa è l’integrazione vera: un arricchimento».
da «Tempi», Leone Grotti