“Per favore, se c’è qualcuno che ancora pensa che l’Isis non rappresenta l’islam, sappia che ha torto. L’Isis rappresenta l’islam, al cento per cento”. Ha alzato la voce, intervenendo al Meeting di Rimini, padre Douglas al Bazi, sacerdote cattolico iracheno e parroco a Erbil, formulando – a mo’ di provocazione e con toni duri – un’equazione che ben pochi si erano spinti a sostenere.
Porta sul corpo i segni delle torture subite nove anni fa, quando una banda di jihadisti lo sequestrò per nove giorni, tenendolo bendato e in catene, con il setto nasale fracassato da una ginocchiata: “Per i primi quattro giorni non m’hanno dato neanche da bere. Mi passavano davanti e mi dicevano ‘padre, vuoi dell’acqua?’. Ascoltavano tutto il giorno la lettura del Corano per far sentire ai vicini quanto fossero bravi credenti”. A padre Douglas non appartiene il felpato linguaggio della diplomazia, il perbenismo di gran moda di cui si fa gran uso per non urtare sensibilità varie. Nessuno spazio, nelle sue parole, neppure per le discettazioni sul grado più o meno alto di moderazione insito nelle religioni e per gli appelli al dialogo a tutti i costi con i tagliatori di teste, gli impiccatori di vecchi studiosi in pensione e, perché no, con il califfo in persona. Più che con i salotti e con certi pulpiti occidentali, l’intervento di padre Douglas è in sintonia con quel che dicono da tempo i presuli locali, a partire dal patriarca di Baghdad, mar Louis Raphaël I Sako, che nel suo libro Più forti del terrore (Emi) ha accusato l’ayatollah al Sistani – la massima autorità sciita irachena – di non aver aperto bocca sulle persecuzioni dei jihadisti contro le minoranze perché “tanto non mi ascoltano”.
Padre Douglas al Bazi è responsabile di due centri di accoglienza per cristiani scampati all’avanzata dell’orda nera, non distante da Ankawa. Dopo la marcatura delle case cristiane dislocate nella piana di Ninive con la “n” di nazareno, un anno fa, “dalla mattina alla sera abbiamo ricevuto migliaia di profughi” e l’esodo ancora continua. “Io sono orgoglioso di essere iracheno, amo il mio paese. Ma il mio paese non è orgoglioso che io sia parte di esso. Quello che è successo alla mia gente è un genocidio. Vi imploro: non parlate di conflitto. E’ un genocidio”, ha detto il sacerdote, che di islam moderato non vuol sentire nemmeno parlare: “Quando l’islam vive in mezzo a voi, la situazione potrebbe apparire accettabile. Ma quando uno vive tra i musulmani, tutto diventa impossibile. Io qui non sono a spingervi all’odio verso l’islam. Io sono nato tra i musulmani, e tra essi ho più amici che tra i cristiani. Ma la gente cambia e se noi ce ne andremo nel mio paese nessuno più potrà distinguere la luce dalle tenebre. C’è chi dice ‘ma io ho tanti amici musulmani che sono simpatici’. Sì, certo. Sono simpatici, qui. Là la situazione è ben diversa”. Una situazione riguardo la quale aveva speso parole dure anche il vicepresidente della conferenza degli imam di Francia (e imam di Nimes) Hocine Drouiche, intervenuto lo scorso luglio al Parlamento europeo: “Nel mondo i cristiani sono perseguitati, braccati, privati del lavoro, imprigionati, torturati, assassinati. Tutti i mezzi sono usati per costringerli a rinnegare la loro fede, compreso il rituale dello stupro collettivo, considerato in certi stati come una forma di sanzione penale. Possedere una Bibbia è diventato un crimine, proibita è la celebrazione del culto, si è tornati ai tempi delle messe nelle caverne e dei primi martiri”. E la colpa, aveva aggiunto Drouiche in un discorso che ben poco risalto aveva avuto sui media europei, è “dell’islam contemporaneo”, che è molto più vicino “al settarismo, piuttosto che a una religione universale e aperta”.
Il racconto di padre al Bazi è poi quello di chi rischia quotidianamente di essere assassinato per strada: “Noi non sappiamo mai se, uscendo da una chiesa, avremo la possibilità di rientrarci da vivi. A Baghdad hanno fatto esplodere la mia chiesa davanti ai miei occhi. Mi hanno sparato alle gambe con un AK-47, un Kalashnikov, e probabilmente prima o poi mi ammazzeranno”. Eppure, la fede è solida: “Quando mi hanno incatenato, nei giorni del mio sequestro, hanno stretto ai polsi un grosso lucchetto. Dalla catena avanzavano dieci anelli, che ho usato per recitare il Rosario. Non l’ho mai fatto in maniera tanto profonda come in quella circostanza”. “Io – ha aggiunto padre Douglas – non imploro il vostro aiuto. Non sono spaventato, così come non è spaventata la mia gente. Credo ci distruggeranno, alla fine. Ma credo anche che l’ultima parola sarà la nostra. Gesù ci ha detto che bisogna portare la propria croce, ed è quello che noi in medio oriente stiamo facendo. Ma la cosa più importante non è di portare la croce, bensì di seguirla. E seguirla significa accettare, sfidare e impegnarsi fino alla fine. A questo noi non rinunceremo mai”.
“Bisogna avere pazienza e portare la croce ogni giorno, ma dobbiamo anche reagire”, gli ha fatto eco padre Ibrahim Alsabagh, parroco ad Aleppo che ha ricordato come la città sia ora “divisa in decine di parti, ognuna delle quali è in mano a un gruppo jihadista diverso. La nostra chiesa di San Francesco è a sessanta metri dalla linea di fuoco. Hanno già colpito tante chiese, non sappiamo quando toccherà alla nostra”. Ecco perché padre Douglas, a conclusione del suo intervento, ha lanciato un monito all’occidente infiacchito: “Svegliatevi! Il cancro è alla vostra porta. Vi distruggeranno. Noi, cristiani del medio oriente, siamo l’unico gruppo che ha visto il volto del male: l’islam”.
*Articolo pubblicato su Il Foglio, edizione del 26 agosto 2015