Il fedele cattolico deve stare “sempre e comunque” dalla parte dei Pastori? È quello che di questi tempi alcuni sostengono, ma un’affermazione del genere indica un positivismo cristiano che evita di fare i conti con la verità e la ragione, a cui anche i Pastori sono tenuti.
Il fedele cattolico deve stare “sempre e comunque” dalla parte dei Pastori? Molti si fanno questa domanda di questi tempi. Qualcuno dice di sì, qualche altro dice di no. Vorrei provare a dire cosa sembra a me, sulla base di un certo buon senso umano e cristiano più che del diritto canonico di cui non sono esperto.
Se fosse vera l’espressione “sempre e comunque dalla parte dei Pastori”, si cadrebbe in un positivismo cattolico, episcopale o papista che sia. Ossia tutto quello che i Pastori fanno o dicono è vero e buono solo perché lo fanno o lo dicono i Pastori. È evidente che una simile posizione non è condivisibile dal fedele cattolico. Non solo perché (troppo) spesso i Pastori parlano a titolo personale e su argomenti che non sono né di fede né di morale, ma soprattutto perché tutti siamo vincolati alla verità e al bene, primi tra tutti i Pastori quando parlano di fede e di morale.
Essi sono servitori della verità e del bene che non stabiliscono soggettivisticamente, ma per ossequio al vero oggettivo della ragione e della dottrina della fede. Vorrei sottolineare questo punto: il Pastore è vincolato non solo alle verità di fede ma anche a quelle di ragione, dato che la Chiesa cattolica serve e tutela sia l’ordine della creazione che l’ordine della redenzione.
Non esiste quindi un obbligo assoluto e incondizionato del fedele a seguire quanto i Pastori gli dicono. Ciò non vuol dire che si debbano fare le guerre interne alla Chiesa, perché la carità va sempre salvaguardata anche quando ci si impegna per la verità. Però la carità non chiede di contraddire o tacere la verità, perché anche la verità è caritatevole.
La vita della Chiesa non può negare quanto è semplicemente naturale ed umano. La sopra-natura non nega mai la natura. Quindi, quanto si richiede solitamente ad un testimone umano non cessa di essere valido quando ci troviamo davanti ad un testimone della fede, quali i Pastori appunto sono.
Per esempio la coerenza personale. Se il testimone mente, oppure ha una condotta immorale, o contraddice oggi quanto sosteneva ieri, o frequenta ambienti e persone che certamente hanno dato cattiva prova di sé … la sua credibilità, umanamente parlando, diminuisce. Ciò vale anche per i Pastori, nei cui confronti non cessano le leggi della logica né quelle della morale. Ogni Pastore deve essere prima un uomo – come anche il fedele, bene inteso… – e la sua credibilità di Pastore non può soprassedere alla sua credibilità umana e personale.
Bisogna ricordare, però, che la scarsa credibilità umana personale non inficia la validità della dottrina insegnata, quando questa è valida. Se un Pastore fosse poco credibile sul piano umano ma insegnasse correttamente la retta dottrina della fede, meriterebbe su questi punti la indiscussa adesione del fedele. L’affidabilità, infatti, è sia soggettiva, ossia attinente ai comportamenti personali, che oggettiva, ossia relativa ai contenuti da lui insegnati.
Tutti vorremmo che nel Pastore ci fossero ambedue le cose, tra le quali, però, esiste una gerarchia: la correttezza dottrinale dell’insegnamento è più importante della coerenza personale. Questa infatti dà un cattivo esempio ma non cambia il vero con il falso, quella invece cambia il vero con il falso, il bene col male, la santità col peccato. Guai, piuttosto, se l’incoerenza personale dovesse influenzare la dottrina insegnata, giungendo magari a mutarla in funzione propria.
A due punti bisogna porre particolare attenzione. Il primo è logico: se il Pastore insegna qualcosa che contraddice quanto la Chiesa ha sempre insegnato, è lecito fermarsi nell’ossequio al suo insegnamento. Come pure se egli assume una logica teologica diversa da quella che la Chiesa ha sempre utilizzato. Il secondo è filosofico: se il Pastore dice cose contrarie a quanto detta la retta ragione, per esempio in campo morale, non esiste obbligo di assenso ai suoi insegnamenti. Quando il Pastore insegna errori non è più Pastore.
Quanto detto finora nega quindi l’obbligo di fedeltà al magistero inteso come fedeltà cieca ad un positivismo episcopale o papale, e ammette una disposizione critica o di rifiuto del fedele quando alcune delle condizioni negative viste sopra dovessero verificarsi in modo inequivocabile e sistematico.
Del resto, ciò viene confermato anche ad un livello più alto. Gesù Cristo non ci chiede di rinunciare alla nostra ragione, alle verità morali naturali, ad adoperare il principio di non contraddizione …, anzi, ci chiede di esaminare la stessa fede cristiana anche con questi strumenti di credibilità o di ragionevolezza. Cristo stesso, quindi, non ha voluto creare un positivismo cristiano. Perché mai dovrebbero farlo i Vescovi o il Papa?
Stefano Fontana in: La NBQ