Martiri di Otranto Antidoto al caos nichilista di oggi

La memoria degli 813 martiri di Otranto, canonizzati il 12 maggio 2013. Per la canonizzazione risultò decisivo un miracolo avvenuto nel 1980, nel quinto centenario dal martirio, quando il monastero delle clarisse di Otranto chiese la loro intercessione per la consorella Francesca Levote, affetta da un tumore già in metastasi. La monaca ebbe una guarigione “rapida, completa e duratura”, inspiegabile per la medicina, e visse per altri 31 anni. Ma al di là della guarigione miracolosa della clarissa, sono innumerevoli i prodigi attribuiti nei secoli all’intercessione dei martiri otrantini, la cui storia merita di essere ricordata, perché mirabile testimonianza di un’epoca in cui i cristiani erano consapevoli del dono della fede in Cristo, unico Salvatore, e del loro dovere di trasmetterla intatta alle nuove generazioni. Anche a costo di perdere la vita terrena per professarla, coscienti che grande ed eterna sarebbe stata la ricompensa nei cieli.
Il martirio di Otranto
si svolge nel 1480, ventisette anni dopo la presa di Costantinopoli da parte degli Ottomani e la caduta dell’Impero Romano d’Oriente. Mentre gli staterelli della nostra penisola si fronteggiavano per questioni territoriali, i turchi progettavano di conquistare l’Italia meridionale, risalire fino a Roma, sede del papato e perciò obiettivo principale del sultano Maometto II, e poi dilagare nel resto d’Europa ricongiungendosi con i musulmani di Spagna, dove ancora non era del tutto completata laReconquista. Prima meta dell’attacco sarebbe dovuta essere Brindisi, ma il vento costrinse la poderosa flotta turca – forte di circa 150 navi e 18 mila uomini – ad attraccare il 28 luglio a poca distanza da Otranto, uno dei primi centri della Puglia a convertirsi al cristianesimo e dove i monaci avevano profondamente inciso sulla fede e sulla cultura.

Abbandonata per la paura da buona parte dell’esigua guarnigione del Regno di Napoli, Otranto si ritrovò a essere difesa dai suoi soli abitanti, ai quali il comandante turco Gedik Ahmet Pascià inviò un messaggero: se non avessero opposto resistenza, sarebbero stati liberi di rimanere o andare via. “Se il Pascià vuole Otranto, venga a prenderla con le armi, perché dietro le mura ci sono i petti dei cittadini”, fu la risposta dell’anziano Ladislao De Marco che ben rappresentava le intenzioni del popolo. Iniziò l’assedio. Durò due settimane, durante le quali Otranto fu cannoneggiata sia da terra che da mare, mentre molti abitanti si rifugiavano nel castello. I musulmani aprirono una breccia nelle mura e iniziarono un massacro per le strade e per le case. Si realizzava così la profezia di san Francesco da Paola, che qualche mese prima aveva messo in guardia i governanti: “Ah infelice città, di quanti cadaveri ti veggo piena! Quanto sangue cristiano s’ha da spargere sopra di te”. Ma Ferrante d’Aragona non credette alla profezia e anzi accusò il santo di disfattismo.

I musulmani violarono pure la cattedrale, dove diversi otrantini avevano trovato rifugio. Era l’11 agosto. Come racconta il contemporaneo Antonio De Ferrariis (1444-1517) nel suo De situ Japigiae, “
durante la notte precedente quello sventurato giorno, l’arcivescovo Stefano […] aveva confortato tutto il popolo col divino sacramento dell’Eucarestia per la battaglia del mattino seguente, che lui aveva previsto”. All’arcivescovo fu intimato di non nominare più Cristo, ma lui non si piegò e con fermezza li ammonì alla conversione: un istante dopo gli fu staccata la testa con un colpo di scimitarra. Nel frattempo, anche il castello venne espugnato, le donne ridotte in schiavitù, alcune violentate e uccise. Lo storico islamico Ibn Kemal (1468-1536) descrive così la conquista turca: “I soldati dell’Islam, combattuto per un po’ di giorni con quelli di fede errata, avendo trasformata in un cimitero la città agli occhi degli infedeli, con la forza presero la fortezza; nell’interno spazzarono via tutto e ottennero migliaia di prigionieri, donne, bambini, vecchi, giovani”.

Il 13 agosto, il pascià chiese la lista dei prigionieri dai quindici anni in su, con esclusione delle donne, e tra i superstiti risultarono esserci poco più di ottocento uomini. I quali furono avvicinati da un prete apostata, che cercò di convincerli a rinnegare Cristo e abbracciare l’Islam, per essere graziati dal pascià. Ma il vecchio sarto Antonio Pezzulla, detto Il Primaldo, prese la parola ed esortò i concittadini a rimanere saldi nella fede: “Fratelli miei, sino oggi abbiamo combattuto per defensione della Patria e per salvar la vita e per li signori nostri temporali, ora è tempo che combattiamo per salvar l’anime nostre per il nostro Signore, quale essendo morto per noi in Croce conviene che noi moriamo per esso, stando saldi e costanti nella Fede e con questa morte temporale guadagneremo la vita eterna e la corona del martirio”. Come scrive il religioso Giovanni Michele Laggetto, il cui padre fu testimone oculare dei fatti, alle parole del Primaldo “incominciarono a gridare tutti a una voce con molto fervore che più tosto volevano mille volte morire con qual si voglia sorta di morte che di rinnegar Cristo”.

Furioso, il pascià ordinò la condanna a morte e il mattino dopo, 14 agosto, gli ottocento vennero condotti sul colle della Minerva, legati e seminudi. Tra continue invocazioni di Gesù e Maria, si confortarono l’un l’altro a “ pigliar pazientemente il martirio e questo faceva il padre al figlio, e il figlio al padre, il fratello al fratello, l’amico all’amico, il compagno al compagno, con molto fervore e con molta allegrezza”.

Ahmet ordinò che il primo a essere decapitato fosse il vecchio Primaldo, che fino all’ultimo incoraggiò i compagni dicendo di vedere gli angeli e il cielo aperto. Le cronache raccontano che il suo corpo balzò in piedi subito dopo la decapitazione e, nonostante gli sforzi dei musulmani, rimase immobile fino al martirio dell’ultimo compagno. Il miracolo fu tale che uno dei carnefici, di nome Berlabei, si convertì professandosi cristiano. Anche lui fu martirizzato poco dopo.

L’eroica resistenza degli otrantini non si rivelò vana, perché consentì all’esercito del re di Napoli di avvicinarsi a Otranto, mentre Sisto IV promosse una tregua tra i vari stati italiani. Alla fine, anche per le difficoltà conseguenti alla morte di Maometto II e al richiamo in patria del pascià, i turchi furono costretti a ritirarsi l’8 settembre 1481. Il 13 settembre furono ritrovati i corpi dei martiri che, come racconta Pietro Colonna detto Il Galatino (1460-1540), erano “illesi e integri (come io vidi) […] e, ciò che è più mirabile, furono trovati tutti con gli occhi rivolti al cielo; nessuno di essi accennava tristezza di sorta; anzi mostravano un così lieto ed ilare volto, che sembrava ridessero”.

Fu un martirio di popolo, che stride con la fede stanca e molle che oggi pervade l’Europa, sempre più scristianizzata e dimentica del passato. Un’Europa che ha rinnegato a tal punto le sue radici da credere che il cristianesimo possa essere accantonato senza contraccolpi per la nostra civiltà, da ritenere che le religioni siano ugualmente orientate alla pace e che basti la parola talismano “accoglienza” per integrare culture profondamente differenti, nonostante la realtà continui a mostrarci il contrario e ci richiami a esercitare la virtù della prudenza.

Gli oltre ottocento martiri idruntini erano consapevoli dell’unicità del cristianesimo, che da due millenni accoglie gli ultimi testimoniando una vera carità, ben lontana dagli slogan sull’accoglienza indiscriminata che si sentono oggi, gridati o per ingenuità o spesso per interesse, ma che di certo non fanno il bene di nessuno. L’antidoto al caos nichilista che oggi governa l’Europa è il ritorno alla fede cristiana viva e pura, testimoniata da quei santi martiri.

Ermes Dovico
In La NBQ

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