Mio Dio, sono nato per contemplarti, per vivere di te, per agire per te. Solo la coscienza di servirti fedelmente può darmi la pace, Tremo al pensiero di non essere degno di te. Questo è il vero “timor di Dio”. Mio Dio sono cresciuto e ho dovuto sopportare di vederti misconosciuto non solo con il pensiero, ma perfino con l’azione e la parola … E dentro di me mi sono proposto allora di compensare le offese, di essere tuo cavaliere senza macchia e senza paura.
Ho sbagliato, ho peccato contro di te, non ho dato a te tutte le mie forze, mi sono lasciato distrarre, ti ho – anch’io- offeso. Ho avuto timore di affermare la tua volontà; mi è sembrata prepotenza e villania verso chi non la voleva sentire. Ma la violenza esercitata in tuo nome, o –meglio- la resistenza al male nel tuo nome è santa anche se dà dolore a qualcuno. E con qualcuno, Dio, tu vuoi che io stia; ed io starei solo coi più forti perché mi dessero qualche cosa della loro forza; ma poi penso che questa è una prudenza che può chiudermi a qualcuno più debole di me, che abbia bisogno della forza che ho più di lui. E, allora, non perderò io la mia forza, non mi si comunicherà l’altrui debolezza? Forse il rischio c’è, ma la salvezza sta nel neutralizzare le influenze, o meglio, nel conservare in un equilibrio un equilibrio tale da poter dare senza essere trascinati.
(Mario Finzi, giovane ebreo bolognese, 23 marzo 1944, otto giorni prima dell’arresto e della deportazione ad Auschiwtz