“Quando ho scoperto di essere incinta ho provato ansia e terrore di portare avanti la gravidanza, ho avuto paura della reazione di mio marito, lui non era assolutamente d’accordo su questa gravidanza, mentre io desideravo molto un altro figlio”. Un’insegnante del nord Italia esce allo scoperto e racconta come, a due anni di distanza da un’interruzione di gravidanza (Ivg), ha avuto bisogno di un percorso psicologico e del sostegno dell’Associazione Papa Giovanni XXIII per ritrovare la serenità e riconciliarsi con se stessa per il grave errore commesso. Niente a che fare col concetto di libertà femminile. Nel suo racconto infatti emerge con chiarezza l’istigazione del marito e delle colleghe di lavoro ad eliminare a poche settimane dal concepimento la creatura che le stava crescendo nel grembo. “Il giorno dell’aborto è stato il giorno più brutto della mia vita. Nel momento in cui ho preso le pastiglie per l’intervento, mi sono sentita crollare il mondo addosso, ho detto: ‘Io ti ho concepito, ma in questo momento io ti uccido. Sto decidendo la morte per te e questo non è giusto'”.
La ferita
Ogni giorno il ricordo di quel momento in lei resta indelebile. La solitudine vissuta in ospedale, l’assenza di un’alternativa e di un confronto profondo con i medici, i sentimenti di ostilità in casa, la separazione improvvisa da quella “parte di sé”. Anche per questo, occorre un sostegno dopo l’aborto e, secondo i dati nazionali dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, molte sono le donne che non vorrebbero abortire ma devono perché istigate dal partner o dai familiari. Se potessero tutte raccontare la propria esperienza, come Giulia, ne emergerebbe un quadro di violenze, maltrattamenti e silenzi indotti anche in famiglie insospettabili. Per questo, quasi come un grido che raccoglie la voce di tante altre donne, ha raccomandato attraverso la sua testimonianza di vita: “A una donna che sta valutando cosa fare dico di non abortire. Se questo bambino è così piccolo ed indifeso, non possiamo decidere noi della sua vita. Ha diritto di vivere. La donna invece non ha diritto di scelta. Uccidere un bambino è uccidere una parte di sé”.
I dati
La Comunità di don Oreste Benzi – che da anni si occupa anche di sostegno post-aborto per le mamme che hanno richiesto l’interruzione volontaria di gravidanza e che hanno bisogno di non sentirsi giudicate ma di dare un nome a quell’insieme di disturbi conseguenti ad un aborto e di un percorso psicologico per poter giungere ad una vera e propria elaborazione del lutto – ha raccolto recentemente la sua testimonianza in occasione della Conferenza stampa di Presentazione dei dati nazionali del Servizio per le maternità difficili, tenutasi a Bologna. Nel 2016 la Comunità Papa Giovanni XXIII ha preso in carico in tutta Italia per una maternità difficile 435 donne, con una riduzione del 13% rispetto all’anno precedente. Di queste 295 erano incinte. In realtà ad una riduzione delle donne italiane che hanno chiesto aiuto (-21%) ha fatto riscontro un incremento delle donne straniere (+ 7%), che l’anno scorso hanno rappresentato il 60% del totale. In particolare su 151 richieste di accoglienza censite, il 48% delle donne sono state accolte internamente all’Associazione.
Una violenza
Come ha denunciato Giulia, continuano ad essere frequenti forme di pressione sulle donne per spingerle verso l’aborto. In quasi un caso su 4 c’è qualcuno che spinge esplicitamente la donna verso l’aborto. In due casi su 3 le pressioni provengono dall’ambiente familiare, innanzitutto dal partner, ma anche dalla famiglia d’origine. Anche questa è violenza di genere perché, come sottolineato da Andrea Montuschi, Responsabile della Comunità Papa Giovanni XXIII in Emilia “essere dalla parte delle mamme vuol dire battersi perché possano liberamente scegliere di essere mamme. Deve essere riconosciuta alle donne la libertà di non abortire. Bisogna rispettare il loro diritto di autodeterminarsi. Altrimenti l’aborto fa due vittime: il bambino e la donna. E in questo particolare momento storico va restituito prestigio alla genitorialità. La scelta responsabile di avere dei figli deve essere accolta positivamente a livello sociale e questo significa anche adottare politiche di sostegno alla genitorialità”. Altrimenti come insegna la storia di Giulia, le famiglie si frantumano al loro interno nel silenzio di un aborto con l’intervento così come con l’uso della pillola del giorno dopo o dei 5 giorni dopo. Tutti strumenti di morte per il nascituro, per la mamma, per il papà e l’intera famiglia. Anche questa diventa violenza di genere se non è previsto sostegno alla maternità nei contratti a termine o a progetto, e nelle svariate forme di precariato al femminile e questo causa istigazione ad abortire in particolare da parte del partner.
Sostegno necessario
La violenza domestica è per le donne in gravidanza, tra i 15 e i 44 anni, la seconda causa di morte. Il 30% dei maltrattamenti ha inizio proprio durante il periodo della gestazione e nel 70% dei casi prosegue. Ecco perché diventa urgente riconoscere uno stipendio alle mamme, come sostiene la Comunità di don Benzi da diversi anni, perché è un lavoro a tutti gli effetti gestare e crescere un figlio nelle prime fasi della sua esistenza, dal concepimento fino ai 3 anni di vita. In fondo stanno lavorando per la società intera e vanno retribuite dallo Stato quando disoccupate o con un reddito insufficiente.
Il libro
Sono tante le storie che dimostrano l’urgenza di una politica che non vada nella direzione dell’istigazione all’aborto. Alcune di queste le ha raccolte in un libro edito da Sempre Comunicazione, in uscita a metà novembre, Andrea Mazzi, Referente modenese del Servizio per la Maternità difficile. “Per me era importante, dopo tanti anni di incontri con donne incinte in difficoltà, raccontare quello che ho visto – spiega a In Terris. “In questo ambito infatti ancora oggi tanti dicono che le gestanti hanno a disposizione tutti gli aiuti necessari per continuare la gravidanza. Io invece ho incontrato un mondo di donne vessate, umiliate e ricattate, di aiuti solo sulla carta, di profonde solitudini, di un mare di indifferenza. E soprattutto di libertà negata, perché normalmente c’è qualcuno o qualcosa che decide al posto della donna. E ho pensato di intitolare questo libro ‘Indesiderate’ perché mi sono reso conto che quando capita una gravidanza imprevista la nostra società emargina le neomamme e le spinge a disfarsi del bambino, anche se loro tante volte desidererebbero comunque accogliere il loro figlio: compagni che non vogliono prendersi le loro responsabilità, mamme che ritengono inadeguate le proprie figlie, datori di lavoro che le lasciano a casa, in generale una società che ritiene un peso qualunque gravidanza non pianificata, e che a ragione si può definire ‘abortista’ perché nei fatti indirizza pesantemente verso l’aborto”. Tanti volti dunque, tante vicende che continuano a gridare con la stessa voce di Giulia: “Non istigateci ad abortire!”
IRENE CIAMBEZI – In Terris