È una mostra fotografica, in una città italiana come potrebbero essercene tante, si intitola “Ma dove sono finito? Frontiere tra visibile e invisibile”. Ci si sono messi in tanti per realizzarla: un comune, una cooperativa che si occupa di immigrati illegali, lo Sprar, che è il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, il GEC, Gruppo di educazione alla cittadinanza, formato da richiedenti asilo seguiti dalla cooperativa di cui sopra, e gli animatori di una associazione. Dopo quattro mesi di incontri settimanali la mostra era pronta ed è stata presentata al pubblico. Consiste in 18 fotografie scattate in vari punti della città: “Non una mostra per raccontare i migranti – spiega il testo di presentazione dell’evento – non una mostra per parlare ‘di loro’, ma una mostra fatta ‘da loro’. Una mostra per poter entrare in contatto con la cittadinanza, uscire così dalla dimensione di oggetto della discussione, ed assumere quella propria di essere umano, ovvero di soggetto sovrano della propria esistenza”.
Entrare in contatto con la cittadinanza, “creare occasioni di fratellanza”: questo è l’obiettivo dichiarato, ma quello effettivo è piuttosto suscitare sensi di colpa, far rimarcare le nostre colpe di ospiti, inadeguati, deludenti, se non peggio, dominati “troppo spesso dalla paura e dai pregiudizi”. Un approccio parziale che, purtroppo, ha trovato ancora eco nelle parola di papa Francesco sull’aereo di ritorno dall’Egitto quando ha parlato di “campi di concentramento” riferendosi ai centri di accoglienza dei migranti.
Le fotografie sono accompagnate da frasi attribuite a loro, gli immigrati, per raccontarli, nel loro rapporto con la città, con il nostro paese. Per lo più parlano di barriere, indifferenza, ingiustizie. Un ragazzo che dal nome si direbbe originario della Costa d’Avorio dice: “Dall’Africa in Italia tanti km percorsi e tante storie vissute. Ma alla fine ridotto a zero km e zero storie dall’indifferenza”. Sotto a una fotografia che mostra l’insegna di un negozio di telefonia mobile c’è scritto: “Un luogo in cui senza documento non puoi comprare una sim card e non puoi fare un abbonamento wifi per il cellulare e per la casa”.
Diallo, un giovane Fulani, commenta: “Se non hai il documento ci sono molte barriere: tutte le porte sono chiuse per te. C’è una barriera che non mi fa spostare e viaggiare. C’è una barriera che non mi fa lavorare”; e poi, insieme a un altro immigrato che si chiama Manga: “Anche noi immaginiamo il nostro futuro, ma per immaginarlo abbiamo bisogno dei documenti e del lavoro”. Un ragazzo dal nome islamico, Manaf, dice. “Non serve a niente mettere una barriera tra di noi”. Un altro commenta così la fotografia di una stazione: “Per voi è invisibile il fatto che senza documento non posso prendere il treno e superare il confine verso la Germania”. E ancora, la didascalia di una fotografia che mostra un cartello di “Vietato l’ingresso” dice: “La natura crea gli uomini liberi e uguali. La vita li rende ingiusti e diversi”.
Di quali barriere parlano, l’indifferenza di chi li turba tanto, che ingiustizie subiscono, che cosa hanno da rimproverarci, proprio loro che in Italia sono arrivati e fin dal primo giorno hanno avuto tutto senza muovere un dito, senza sborsare un centesimo; anzi, ricevono in più una diaria per le piccole spese? Questa è l’ovvia reazione degli italiani che visitano la mostra.
Avendo tempo di riflettere sulle didascalie, sorgono poi altre perplessità. Se sono dei richiedenti asilo, come affermano di essere, di quali documenti lamentano la mancanza? Forse reclamano lo status di rifugiato, una risposta più rapida da parte delle commissioni territoriali? Però nel frattempo godono degli stessi diritti dei rifugiati, anche se alla fine quasi nessuno otterrà asilo perché quasi nessuno è profugo. Vogliono lavorare, dicono. Trascorsi 60 giorni dalla presentazione della richiesta, possono farlo. Ma, per trovare lavoro, devono parlare italiano, saper fare qualcosa che serva. E non glielo ha detto nessuno che oggi più di tre milioni di italiani, soprattutto giovani della loro età, vorrebbero lavorare e invece sono disoccupati?
18 fotografie, altrettante frasi, non un grazie per quel che ricevono, non una parola di gratitudine verso la comunità che li ospita e li mantiene. Ci si aspetterebbe di trovare frasi come: “Ancora ieri non sapevate neanche che esistessi, sono entrato violando le vostre leggi, eppure mi avete soccorso e adesso vi preoccupate del mio benessere, della mia dignità di persona”. Oppure: “Grazie a voi posso parlare con la mia famiglia tutti i giorni, non mi sento solo e loro non sono in pensiero”. O ancora: “Non dimenticherò mai quel che state facendo per me, se un giorno avrete bisogno di aiuto, spero di poter ricambiare il bene che adesso ricevo”.
Niente del genere. Certo non c’è bisogno che ringrazino, ci prendiamo cura di loro comunque, per carità cristiana, per rispetto umano. Ma così sembra che siano inconsapevoli o incuranti di essere entrati in Italia illegalmente e che non diano valore al fatto di essere tuttavia ospitati, assistiti.
Una frase si differenzia dalle altre: “L’Italia è un posto dove ci sono belle case e dove le persone vivono bene”. Dal nome, Sylla, a scriverla deve essere stato un cittadino del Mali, proprio uno degli stati africani che dal 2014 cercano di far capire alla gente che emigrare pensando di far fortuna in Italia è un’illusione. La campagna governativa maliana contro l’emigrazione, soprattutto quella illegale, si intitola “Il mio Eldorado è il Mali”.
Anna Bono in La nuova Bussola Quotidiana