(Philippe Maxence) Martedì 20 giugno è stata resa pubblica la lettera che i quattro cardinali, autori dei dubia rivolti a Papa Francesco riguardo all’interpretazione di Amoris lætitia, hanno inviato al Sovrano Pontefice lo scorso mese di aprile per chiedergli un’udienza. In entrambi i casi, i cardinali non hanno ricevuto alcuna risposta.
Ricordiamo che i dubia rispondono a una procedura abituale nella Chiesa, prendendo la forma di domande formulate in modo molto preciso al fine di condurre a una risposta non equivoca. Esse sono indirizzate all’autorità legittima da inferiori e costituiscono, in sé, un riconoscimento, non solo di quest’autorità e della sua legittimità, ma anche del fatto che essa sola può fornire i chiarimenti richiesti. Non avendo ottenuto risposta a questi dubia, i cardinali hanno dunque domandato un’udienza.
L’assenza di risposta li ha indotti a rendere pubblica questa richiesta d’udienza. Ciò permette al quotidiano La Croix di parlare stranamente di «cardinali frondisti». Dopo l’interpretazione che di questo passo ha dato il filosofo moralista Thibaud Collin, abbiamo chiesto all’abbé Claude Barthe, specialista di questioni che toccano la Chiesa in generale e il Vaticano in particolare, di decifrare per noi questo avvenimento.
Il fatto che la lettera al Papa dei cardinali Caffarra, Burke, Meisner e Brandmüller per chiedergli udienza sia rimasta senza risposta, provoca reazioni indignate ovunque nel mondo, specialmente in Italia e in Francia. Lei come analizza questo avvenimento?
Ci sono due aspetti, che i vaticanisti italiani d’altronde rilevano. Da una parte, il silenzio del papa, che non risponde ai cardinali che l’hanno interrogato circa la rottura magisteriale del capitolo 8 di Amoris lætitia, e che oggi non risponde alla loro richiesta d’udienza, è un silenzio assordante. Dall’altra, i cardinali (quelli che figurano in questo procedimento e quelli che li sostengono) hanno scelto di rendere pubblici i loro interventi: il che lascia pensare che proseguirà la linea della «correzione fraterna», rispettosa ma ferma, nella quale si sono già posti.
Si tratta di una situazione nuova?
Una situazione nuova per loro, è vero, ma per molti altri è una vecchia storia. Certi aspetti ecclesiologici del Concilio Vaticano II avevano provocato un grande sommovimento nella Chiesa, con molte reazioni di «non-ricezione».
In quanto alla morale coniugale, che sembrava dovesse venir trascinata nello stesso vortice, essa al contrario è rimasta salda: Humanæ vitæ, di Paolo VI, in primo luogo, e tutto il corpus d’insegnamento morale che è stato elaborato come una sorta di prosecuzione dell’enciclica, e anche come prosecuzione dell’insegnamento di Pio XII, l’istruzione Donum vitæ, le encicliche Evangelium vite, Veritatis splendor, l’esortazione Familiaris consortio, le parti morali del Catechismo della Chiesa cattolica.
Bisogna notare che il cardinale Caffarra, che assume oggi una posizione di spicco, è stato, come Presidente del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II di Studi sul Matrimonio e la Famiglia, all’Università Lateranense, uno dei grandi artefici di questo insegnamento detto «di restaurazione». Ma ecco che oggi questa diga morale cede anch’essa con Amoris lætitia.
I difensori del magistero morale anteriore si trovano da allora esattamente nella situazione che era stata dei difensori dei magistero ecclesiologico anteriore: non gli si risponde. Ma a porre quesiti oggi sono cardinali di Santa Romana Chiesa.
Lei allude per il passato alle domande che Mons. Lefebvre poneva in merito alla libertà religiosa e all’ecumenismo, ad esempio?
Non solo a Mons. Lefebvre e non solo agli interrogativi sulla libertà religiosa e l’ecumenismo. Le questioni più importanti, a mio avviso, sono state quelle poste a proposito dell’autorità dell’insegnamento supremo dopo il Vaticano II.
Poiché questo concilio aveva deciso di non elaborare insegnamenti nuovi che recassero la nota d’infallibilità (il famoso «concilio semplicemente pastorale»), i punti che per la minoranza conciliare facevano difficoltà sono stati posti in una categoria nuova, capra e cavoli, che non impegnava veramente, e che è stata qualificata come «magistero semplicemente autentico». Ma di colpo, l’insegnamento morale che è seguito – benché fondato sulla legge naturale – è stato anch’esso qualificato normalmente come «semplicemente autentico», non infallibile.
Da qui la contestazione teologica progressista contro Roma che fino al pontificato attuale non è mai cessata, contestazione ecclesiologia (Drewermann, Jacques Dupuy), politica (i teologi della liberazione), ma soprattutto morale (Curran, Fuch, Thevenot, il cardinale Martini con quello che è stato chiamato il suo «programma di pontificato», ecc.).
È d’altronde la ragione per cui alcuni moralisti americani, il padre John Ford e Germain Grisez, dell’Università di Notre-Dame, ma anche il padre Ermenegildo Lio, dell’Università Alfonsiana a Roma, volevano che si dichiarasse che quell’insegnamento morale era, per sua stessa natura, infallibile. Proprio in occasione dei colloqui organizzati dall’Istituto Giovanni Paolo II dal cardinale Carlo Caffarra, alla fine degli anni ottanta, tali questioni erano dibattute.
Da parte mia io mi sono unito, molto modestamente, all’interrogazione di Germain Grisez e del moralista di Oxford, John Finnis, alla Congregazione per la Dottrina della Fede. Senza alcun successo. E tuttavia, non era vitale che gli sposi cristiani e i confessori sapessero se la dottrina di Humanæ vitæ era sì o no irriformabile? Ma rispondere al quesito avrebbe comportato delle revisioni laceranti concernenti l’autorità che l’insegnamento supremo si dava, revisioni che senza dubbio non si sono volute rischiare.
Ma oggi si parla appunto della reinterpretazione ufficiale di Humanæ vitæ. Che ne pensa?
È gravissimo. In realtà, i princìpi posti dal capitolo 8 di Amoris lætitia già possono servire a «reinterpretare» Humanæ vitæ. Il N° 301 dell’esortazione spiega che «non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. [… Un soggetto] si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa».
È chiaro che se questo è vero dell’adulterio, è vero a maggior ragione della contraccezione. Detto questo, Dio non permette il male che per trarne un bene più grande. Le crisi hanno questa virtù, che esse permettono di andare alla radice del male. E questa radice è magisteriale. Molto opportunamente Thibault Collin, che avete intervistato il 20 giugno, vi rispondeva citando un discorso di Paolo VI nel 1972: «Vorremmo essere capaci, più che mai in questo momento, di esercitare la funzione assegnata da Dio a Pietro, di confermare nella Fede i fratelli. Noi vorremmo comunicarvi questo carisma della certezza che il Signore dà a colui che lo rappresenta anche indegnamente su questa terra». Da qui l’interrogazione che da cinquant’anni sollecita questa confermazione.
Gli avversari dei cardinali dubitanti li accusano di volere, col pretesto dei quesiti, imporre di fatto le loro proprie risposte al Papa? Essi pongono quesiti perché si è sempre fatto così nella Chiesa nei confronti dei pastori, ai quali si domanda il pane della parola e della grazia. Ma è vero che in fondo ai loro quesiti spunta una «correzione fraterna», o se si vuole una domanda, una petizione, ben più radicale: che i pastori, e il primo fra loro innanzitutto, siano veramente pastori.
Da Corrispondenza Romana