Il card. Müller e Buttiglione, una confusione che aumenta

Il prof. Rocco Buttiglione si batte da mesi contro i critici dell’Amoris laetitia, per giustificare il contenuto dell’esortazione post-sinodale di papa Francesco. Ora ha raccolto i suoi articoli in un libro dal titolo Risposte amichevoli ai critici dell’Amoris laetitia, pubblicato dalla casa editrice Ares, con un’inattesa prefazione del cardinale Gerhard Ludwig Müller.

Andrea Tornielli riporta su Vaticaninsider un ampio stralcio di questa introduzione che aggiunge confusione alla confusione oggi imperante. L’ex-Prefetto della Congregazione per la Fede, a differenza del prof. Buttiglione, ha sempre manifestato una certa simpatia verso i quattro cardinali dei “dubia”, ma ritiene che per “neutralizzare” la Amoris laetitia conviene interpretarla in continuità con l’insegnamento della Chiesa, piuttosto che criticarla apertamente.

Per spiegare l’apparente contraddizione tra Amoris laetitia e i dogmi definiti dalla Chiesa sui sacramenti del matrimonio, della penitenza e della eucarestia, il cardinale fa propria la tesi di fondo di Rocco Buttiglione, che riassume in queste due righe: «Ciò che è in questione è una situazione oggettiva di peccato che, a causa di circostanze attenuanti, soggettivamente non viene imputata».

Il problema non sarebbe quello della oggettività della legge morale, ma della“imputabilità” del peccatore, ovvero della soggettiva responsabilità dei suoi atti. Il punto di partenza del ragionamento è una nota verità morale, secondo cui per la imputabilità morale di un atto bisogna che il soggetto lo abbia compiuto sapendo ciò che faceva e agendo liberamente, ovvero con piena avvertenza e deliberato consenso.

Il punto di arrivo, che trasforma la verità in sofisma, è quello secondo cui le circostanze potrebbero annullare la responsabilità di chi si trova in una situazione di peccato grave. Infatti, secondo Buttiglione, non possiamo considerare “imputabili”, ovvero colpevoli, quei divorziati risposati che vorrebbero mutare la loro condizione di vita, ma non possono farlo, a causa di una concreta situazione che determina i loro atti, rendendo impossibile la loro libera e consapevole scelta. Se, ad esempio, una coppia di divorziati risposati ha dei figli di cui prendersi cura, la dissoluzione della loro convivenza potrebbe pregiudicare l’avvenire di questi figli.

Né si può chiedere loro di vivere da fratello e sorella, perché ciò potrebbe avere disastrose conseguenze psicologiche e morali per la coppia e per gli stessi figli. In questo caso bisognerebbe esercitare un prudente “discernimento” e la “misericordia” dovrebbe spingersi fino a concedere ai conviventi l’accesso al sacramento dell’eucarestia, anche se la loro situazione irregolare non soddisfa tutte le esigenze della legge morale. Il sofisma nasce dal fatto che questo ragionamento non ha niente a che fare con la dottrina cattolica sulla imputabilità degli atti e discende invece dalla “morale della situazione”, ripetutamente condannata da Pio XII e da Giovanni Paolo II.

«Il segno distintivo di tale morale – spiega Pio XII – è costituito dal fatto che essa non si basa in alcun modo sulle leggi morali universali, come ad esempio i Dieci Comandamenti, ma sulle condizioni o circostanze reali e concrete nelle quali si deve agire, e secondo le quali la coscienza individuale è tenuta a giudicare ed a scegliere; questo stato di cose è unico ed è valido una sola volta per ciascuna azione umana. Perciò la decisione della coscienza, affermano coloro che sostengono tale etica, non può essere imperata dalle idee, dai princìpi e dalle leggi universali» (Discorso alla Federazione Cattolica Mondiale della Gioventù Femminile del 18 aprile 1952).

La“piena avvertenza”, secondo la morale cattolica, non significa la chiara ed esplicita consapevolezza che con il proprio atto si offende Dio in materia grave. Se questa consapevolezza ci fosse, essa aggiungerebbe al peccato una ulteriore malizia. Per peccare mortalmente basta acconsentire a un comportamento che di per sé si oppone in materia grave alla legge divina (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Persona humana del 29 dicembre 1975, n. 10).

Ogni uomo infatti ha il dovere di conoscere ciò che è necessario alla propria salvezza. L’ignoranza su verità etiche fondamentali, non giustifica il peccato, ma è in sé stessa peccato. Infatti, afferma Giovanni Paolo II, «non si trova la verità se non la si ama; non si conosce la verità se non si vuole conoscerla» (Udienza generale del 24 agosto 1983, n. 2). Il Magistero, da tempo immemorabile, ha condannato l’affermazione secondo cui «è priva di colpa ogni cosa che sia fatta per ignoranza» (Concilio di Sens del 2 giugno 1140, Errori di Pietro Abelardo, DS 337/730).

La non imputabilità, completa o parziale, si riduce dunque a rari casi come quelli di ubriachezza, demenza, malattie psichiche, ipnosi, sonno o dormiveglia. In questi casi mancano le condizioni dell’atto libero, perché non è possibile il dominio della persona sugli atti del suo intelletto o della sua volontà. Per quanto riguarda invece il deliberato consenso, per attribuire carattere morale ai nostri atti basta un consenso imperfetto. Tutti i nostri atti subiscono condizionamenti esterni di vario genere (educazione, ambiente, strutture sociali) così come dipendono anche dai caratteri genetici o dagli abiti di vita (le virtù e i vizi). Ma ogni atto che non sia stato ottenuto con la violenza fisica, e comporti qualche conoscenza, anche parziale, della legge naturale, deve essere considerato volontario e imputabile.

La violenza morale (esercitata per esempio dai mass media o dalla diffusione di modelli di condotta immorale) non sopprime la volontarietà dell’atto, perché il consenso della volontà non può essere determinato da alcuna forza estranea alla volontà stessa. Perché ci sia pienezza di consenso, è sufficiente che la volontà voglia l’atto, indipendentemente dai condizionamenti che riceve. L’atto della volontà è infatti interiore e l’atto interiore della volontà non può essere mai forzato (Ramón García de Haro La vita cristiana. Corso di teologia morale fondamentale,Ares, Milano 1995, p. 253).

Il vero discernimento morale presuppone inoltre una oggettiva norma di valutazione. Per questo, come osserva un altro noto moralista, nel giudizio sulla moralità di un atto bisogna partire dall’oggetto e non dal soggetto (Maussbach, Teologia morale, tr. it., Paoline, Roma 1957, vol. II, pp. 310-311). Per la bontà di un atto è necessario che esso sia conforme alla regola morale, secondo tre relazioni che costituiscono una inscindibile unità: oggetto, circostanza, fine. Perché un atto sia considerato immorale, basta che uno di questi tre elementi sia cattivo, secondo il principio bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu(Summa theologiae, I-IIae, q. 18, a. 4, ad 3).

Le circostanze storiche o sociali possono aggravare o attenuare la moralità di un atto cattivo, ma non ne mutano l’intrinseca malizia, a meno di non negare l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi. La Veritatis splendor ribadisce l’esistenza degli “assoluti morali”, mentre la Amoris laetitia, pur senza negarli di principio, li vanifica di fattoaffidando la valutazione morale degli atti umani ad un discernimento che subordina la legge morale alla coscienza del soggetto, rendendo ogni atto e ogni situazione in sé unica e irripetibile.

Ma, «di fronte alle norme morali che proibiscono il male intrinseco, non ci sono privilegi né eccezioni per nessuno» (Veritatis splendor, n. 96). L’osservanza della legge morale può comportare difficoltà, timori, angoscia, conflitti interiori. In questi casi, però, nella storia della Chiesa i veri cristiani, non aggirano la legge morale, attraverso la scorciatoia della “non imputabilità”, ma ricorrono all’aiuto invincibile della Grazia: una parola che sembra sconosciuta ai difensori della Amoris laetitia.

Quando a san Tommaso Moro venne chiesto di accettare l’adulterio di Enrico VIII, le pressioni che ricevette dalla famiglia, dagli amici e dal sovrano stesso, avrebbero potuto spingerlo ad invocare la non imputabilità della sua apostasia. Egli scelse però, come i cristiani dei primi secoli, la strada del martirio. Una strada che l’enciclica Veritatis splendor traccia con queste parole: «I martiri, e più ampiamente tutti i santi nella Chiesa, con l’esempio eloquente e affascinante di una vita totalmente trasfigurata dallo splendore della verità morale, illuminano ogni epoca della storia, risvegliandone il senso morale. Dando piena testimonianza al bene, essi sono un vivente rimprovero a quanti trasgrediscono la legge (cfr Sap 2, 12) e fanno risuonare con permanente attualità le parole del profeta: guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre (Is5, 20)» (Veritatis splendor, nn. 91-93).

 

Roberto de Mattei – Corrispondenza Romana

 

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