Diversi sono gli spunti e le domande che provoca il viaggio del Papa in Myanmar e Bangladesh, e ci sarà forse tempo nei prossimi giorni per ritornarci. C’è però una questione che mi pare prioritaria, che i gesti e le parole di papa Francesco (anche in conferenza stampa) hanno posto in primo piano. Vale a dire, il senso della missione. O meglio, e mi si scusi la brutalità: a essere coerenti con le affermazioni del Papa, ha ancora senso la missione? E la missione, così come vissuta dalla Chiesa in duemila anni, è da rottamare?
La domanda sorge pressante anche in considerazione del fatto che Myanmar e Bangladesh sono due paesi di missione, dove la fede cattolica è arrivata 500 anni fa grazie ai missionari europei e il lavoro di evangelizzazione ha avuto un nuovo impulso all’inizio del ‘900. Sebbene le comunità cattoliche rappresentino una piccola minoranza (1% in Myanmar, ancora meno in Bangladesh), hanno una storia importante di fedeltà a Cristo, vissuta fino nel martirio, grazie anche ai tanti missionari che hanno lavorato in questi paesi. Tra questi va almeno ricordato il padre Clemente Vismara, 65 anni trascorsi nelle foreste birmane e beatificato nel 2011.
Non solo negli interventi del Papa a questa storia missionaria e di martirio non si è fatto cenno, ma nei suoi discorsi sono emersi soprattutto due aspetti: il primo è un’aperta diffidenza verso le conversioni al cattolicesimo, e a tutto ciò che sa di missione “tradizionale”. C’è una costante insistenza nel sottolineare che l’evangelizzazione non è proselitismo, lo ha fatto ancora nella conferenza stampa sull’aereo di ritorno: sebbene nel linguaggio comune per proselitismo si intenda una missione “aggressiva”, tipica di alcune sette protestanti, non pare proprio a questo che il Papa si riferisca visto che non si vede proprio come i cattolici rischino un atteggiamento del genere.
Piuttosto il Papa sembra proprio prendere le distanze dalla missione intesa anzitutto come annuncio di Cristo, di cui troviamo mille esempi negli Atti degli Apostoli e che può essere sintetizzato dal discorso di San Paolo all’Areopago di Atene: «Quello che voi adorate senza conoscere, io ve l’annunzio». Chiara in questo senso è una risposta sull’aereo: «… noi non siamo molto entusiasti di fare subito le conversioni. Se vengono, aspettano: si parla…, la tradizione vostra…, si fa in modo che una conversione sia la risposta a qualcosa che lo Spirito Santo ha mosso nel mio cuore davanti alla testimonianza del cristiano». E ancora: «Questa è la forza e la mitezza dello Spirito Santo nelle conversioni. Non è un convincere mentalmente con apologetiche, ragioni… no. E’ lo Spirito che fa la conversione. Noi siamo testimoni dello Spirito, testimoni del Vangelo». Non c’è dubbio che il Papa dia la precedenza alla convivenza tra le religioni, al reciproco rispetto: «Cosa è prioritario, la pace o la conversione? Ma, quando si vive con testimonianza e rispetto, si fa la pace. La pace incomincia a rompersi in questo campo quando incomincia il proselitismo, e ci sono tanti tipi di proselitismo, ma questo non è evangelico». Insomma, potremmo sbagliare ma sembra proprio che l’ideale implicito è che ogni religione coltivi il suo orto e guai ad alterare gli equilibri.
Si obietterà: ma il Papa invita continuamente – anche nelle frasi che ho citato – a testimoniare il Vangelo, ad essere “Chiesa in uscita”. Ed è infatti qui il secondo aspetto da mettere in evidenza, ovvero che cosa egli intenda per “testimoniare il Vangelo”: «È testimoniare le Beatitudini, testimoniare Matteo 25 («…Avevo fame e mi avete dato da mangiare,… ndr), testimoniare il Buon Samaritano, testimoniare il perdono settanta volte sette», ha detto sull’aereo. E nel valorizzare e incoraggiare i cattolici del Myanmar, su questo si è soffermato: «In mezzo a tante povertà e difficoltà, molti di voi offrono concreta assistenza e solidarietà ai poveri e ai sofferenti. Attraverso le cure quotidiane dei suoi vescovi, preti, religiosi e catechisti, e particolarmente attraverso il lodevole lavoro del Catholic Karuna Myanmar e della generosa assistenza fornita dalle Pontificie Opere Missionarie, la Chiesa in questo Paese sta aiutando un gran numero di uomini, donne e bambini, senza distinzioni di religione o di provenienza etnica».
In questo modo sembra che l’evangelizzazione sia ridotta alle opere buone per i poveri. E l’ideale diventi essere buoni e bravi. Non c’è dubbio che le buone azioni siano importanti, ma non si può non fare un paragone: Gesù agiva certamente, ma anche insegnava e dà mandato agli apostoli di annunciare il Vangelo e «ammaestrare le genti». Gli Atti degli Apostoli ci raccontano della gioia per la conversione dei pagani e l’accoglienza della Parola di Dio. La storia della Chiesa poi è costellata di missionari martiri che avevano a cuore l’annuncio della Parola di Dio prima che la costruzione di ospedali, scuole e centri di accoglienza. E Madre Teresa di Calcutta, che pure in opere per i poveri non era seconda a nessuno, diceva: «La più grande disgrazia del popolo indiano è di non conoscere Gesù Cristo». E quanto all’apologetica, tanto disprezzata, non era forse San Pietro a invitare a «rendere ragione della speranza» che è in noi?
C’è da dire che un certo approccio non è una novità, perché una parte del mondo missionario da decenni spinge soprattutto sul piano socio-economico della missione. Ma se questa diventa l’indicazione che si irradia da Roma, torniamo alla domanda iniziale: ha ancora senso la missione?
Sarebbe auspicabile che anche dai missionari arrivassero contributi per aprire un dibattito.
Riccardo Cascioli – La NBQ