L’animismo è una forma arretrata e brutale di paganesimo. È una religione che schiavizza l’uomo e lo sottomette a tante forze disumane fuori e dentro di lui. Non è una religione “naturale”, ma naturalistica. Non è una religione spirituale, ma spiritistica. Non ci parla del mistero ma della magia. Non è ragionevole ma superstiziosa. Non ha sacerdoti ma sciamani. Non è in armonia con le forze della natura perché le divinizza. L’animismo produce soggezioni ancestrali, permette la perpetuazione di credenze malefiche, blocca lo sviluppo dei popoli, impedisce di credere nell’uomo. Lo spiritismo è innaturale per l’uomo perché è irrazionale.
L’evangelizzazione libera le culture dai propri aspetti disumani e la fede in Gesù Cristo toglie gli uomini dalla dipendenza degli déi che li rende schiavi. Non solo le encicliche sulla missione ma anche quelle di Dottrina sociale della Chiesa sono ferme su questo punto: il maggior fattore di sviluppo è il Vangelo anche perché libera i popoli oppressi e poveri dalle loro angoscianti fantasie animiste e dai vincoli sociali opprimenti che esse determinano e fissano staticamente.
Però nell’attuale infatuazione cattolica per il problema ambientale e per il pericolo del riscaldamento globale, nonché nella visione rampante di un dialogo interreligioso paritetico e universalistico, le religioni “primitive” vengono recuperate e rivalutate come esempi di incontro fecondo e sereno con la natura. Un recente esempio é l’articolo pubblicato sull’ultimo numero della rivista “Vita e Pensiero” con il titolo “Rivalutare l’animismo? Una sfida per il cristianesimo”. Il titolo in forma di domanda è retorico, l’articolo rivaluta l’animismo senza farsi tante domande.
Due informazioni risultano qui molto importanti. La prima è di che rivista stiamo parlando. Si tratta della rivista ufficiale della Università Cattolica del Sacro Cuore, fondata da Padre Gemelli e di cui ricorrono quest’anno i cento anni di fondazione. Strabiliante per molti versi la parabola della rivista in questi cento anni fino a proporre l’animismo cattolico. La seconda è sull’autore dell’articolo, il padre e professore Agbonkhanmeghe E. Orobator, gesuita nigeriano che copre incarichi di alto livello: direttore dell’Università dei Gesuiti in Kenya, docente alla Georgetown (sempre dei Gesuiti) a Washington e Presidente della Conferenza dei Gesuiti d’Africa. Sta per uscire il suo libro “Confessioni di un animista. Fede e religione in Africa”.
Nel suo articolo il Padre Orobator sostiene che l’animismo è in linea sia con l’insegnamento sull’ambiente di Papa Francesco sia con alcune indicazioni della Veritatis splendor di Benedetto XVI. Nelle parole di quest’ultimo, l’autore trova i concetti della natura come di un tutt’uno, dei legami esistenti tra le relazioni con le cose e le relazioni tra di noi, con un senso di riverenza per l’ecologia sia ambientale che umana. Ma la convergenza tra animismo e cattolicesimo su questi punti, se c’è, è solo nominale: qui è un insieme di irrazionali e spiritistici contatti sotterranei mentre là è un progetto ontologico frutto del Logos di Dio. Qui, per usare una terminologia cara a papa Ratzinger, abbiamo la religione del mito, là abbiamo la religione del Logos.
Nella cultura animista non c’è traccia dell’affidamento della natura all’uomo, perché anche l’uomo dipende dalla rete di interconnessioni sotterranee che lega tutti gli esseri indistintamente.
Questo articolo però non è il solo indizio di un cambiamento di prospettiva in atto nella Chiesa verso l’animismo. Ho già fatto notare (vedi qui) che nel Documento preparatorio del prossimo Sinodo sull’Amazzonia ci sono moltissimi passaggi che acriticamente valorizzano le religione animiste degli abitanti di quelle terre.
Le culture animiste dei popoli indigeni dell’Amazzonia sono celebrate perché hanno un “rapporto di interdipendenza con le risorse idriche” nella consapevolezza che “la vita dirige il fiume” e “il fiume dirige la vita”. Inoltre, “i popoli della foresta, che sono fondamentalmente raccoglitori e cacciatori, sopravvivono con ciò che la terra e il bosco offrono loro. Questi popoli vigilano sui fiumi e hanno cura della terra, nello stesso modo in cui la terra ha cura di loro. Sono i custodi della foresta e delle sue risorse”. “Ognuno di questi popoli – continua il Documento – rappresenta un’identità culturale particolare, una ricchezza storica specifica e un modo peculiare di guardare la realtà e ciò che li circonda, nonché di rapportarsi con tutto questo a partire da una visione del mondo e da un’appartenenza territoriale specifiche”. Tutto questo rappresenta una ricchezza che va conservata e tutelata.
Nel Documento non si nota nessun accenno agli aspetti violenti, magici, superstiziosi, di oppressione psicologica tramite i numerosi taboo di quelle culture e religioni. Come la biodiversità nel campo botanico, quelle culture sarebbero solo da proteggere come una biodiversità nel campo antropologico. Ma senza valutazione di sorta alla luce non certo dei “grandi interessi economici” ma del Vangelo.
Dottrina Sociale in La NBQ