Il disegno di legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento, dopo essere stato licenziato dalla Camera, prosegue il suo iter in Senato. Mercoledì 27 settembre la Commissione affari costituzionali ha approvato un “parere non ostativo” con osservazioni che ora passerà al vaglio – insieme a tutto il resto del testo di legge – della Commissione Sanità.
Le modifiche al Ddl sarebbero le seguenti: il termine “disposizioni” dovrebbe mutare in “dichiarazioni”. Le prime infatti esprimono un carattere di obbligatorietà maggiore rispetto al secondo lemma che invece manifesterebbe una semplice opinione del paziente la quale potrebbe anche non essere assecondata dal medico. Il senatore di Democrazia Solidale Lucio Romano, già presidente dell’associazione cattolica Scienza & Vita ed estensore del parere, in merito a questa prima modifica dichiara: “profilo caratterizzante del disegno di legge è e deve essere il bilanciamento tra il principio della inviolabilità della libertà personale (articolo 13 della Costituzione) e il diritto alla salute, che l’articolo 32 della Costituzione qualifica come diritto fondamentale della singola persona e come interesse dalla collettività. Alla luce di questa premessa, nel titolo, nonché ovunque ricorra nel disegno di legge, la parola: ‘disposizioni’ dovrebbe essere sostituita con la seguente: ‘dichiarazioni’, al fine di valorizzare la relazione di cura e di fiducia tra il medico e il paziente, così come afferma l’articolo 1, comma 2, del disegno di legge”. In buona sostanza questo cambiamento lessicale dovrebbe rispettare la libertà di cura del paziente e la sfera di autonomia del medico.
In realtà anche se passerà questa modifica il medico dovrà comunque sottostare alle richieste del paziente, anche a quelle di carattere eutanasico. Ce lo dice il combinato disposto di due articoli del disegno di legge all’esame al Senato. L’art. 1 comma 5 permette al paziente di rifiutare l’attivazione della nutrizione e idratazione artificiali, l’interruzione di questi mezzi di sostentamento vitale e di qualsiasi terapia già in essere, comprese quelle salvavita. Il medico non può sollevare obiezione di coscienza in riferimento a queste richieste, infatti il comma 6 dell’art. 1 così recita: “Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo”.
Da rammentare che la legge qualifica “trattamento sanitario” anche idratazione e nutrizione (art. 1 c. 5). Dunque anche se le disposizioni diventeranno dichiarazioni le Dat rimarranno vincolanti per il medico.
La seconda modifica proposta nel parere prevede una “verifica periodica dell’attualità delle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento” dichiara Romano. Si pensa ad una obbligatoria verifica quinquennale. Ancora da vedere se le Dat non rinnovate perderanno efficacia giuridica: ma se così non fosse che senso avrebbe obbligare le persone a rivedere le proprie Dat?
A tal proposito è da rilevare che innanzitutto la pratica delle rivedibilità delle Dat, nei Paesi dove è permessa, spesso non viene accolta dai pazienti per il semplice motivo che anche se cambiano idea sulle cure non si accorgono di aver cambiato idea e quindi non sentono l’esigenza di cambiare il contenuto delle proprie Dat (Cfr. R.M. GREADY – P.H. DITTO – J.H DANKS ET AL., Actual and perceived stability of preferences for life-sustaining treatment, in Journal of Clinical Ethics, 2000, 11 (4); S.J. SHARMAN – M. GARR – J.A. JACOBSEN ET AL., False memories for end-of-life decisions, in Health Psychology, Mar. 2008, 27 (2)).
In secondo luogo, ed è l’aspetto più rilevante, non è tanto la possibilità di rivedere o meno le Dat che fa problema, ma il problema sono le Dat stesse che rimangono uno strumento che non attualizza le volontà del paziente ma le congela nel passato. Il parere quindi approva comunque la validità di uno strumento che è invece inefficace per sua natura e che apre a pratiche eutanasiche.
Passiamo al terzo punto del parere. Attualmente il testo di legge considera nutrizione e idratazione trattamenti sanitari e quindi come tali rifiutabili dal paziente. Il parere invece vorrebbe che fosse il medico a decidere quando nutrizione e idratazione debbano essere considerate terapie e quando mezzi di sostentamento vitale. Qui la censura riguarda un aspetto di carattere morale che coinvolge anche gli altri due punti del parere. Qualcuno potrebbe voler difendere il parere perché introduce un miglioramento del testo di legge. Questo è vero, perché perlomeno in qualche caso troveremmo un medico che qualificherà idratazione e nutrizione come mezzi di sostentamento vitale e quindi per legge non rifiutabili. Ma il problema di carattere morale sta nel fatto che si otterrebbe questo miglioramento per mezzo di un atto eticamente non accettabile, cioè inserendo nel testo di legge una facoltà moralmente illecita.
Infatti da una parte si permetterebbe al medico di riconoscere la vera natura clinica di idratazione e nutrizione e quindi di qualificarle come mezzi di sostentamento vitale (facoltà lecita), su altro fronte invece si consentirebbe al medico di non riconoscere tale natura e di attribuire ad entrambe la qualifica di “terapie” (facoltà illecita). Ad una facoltà buona si accompagnerebbe una malvagia.
Stesse riserve per gli altri due punti: si propone la modifica migliorativa di uno strumento – le Dat – che calato in quel testo di legge rimane uno strumento di morte. E’ un po’ come se chi fosse contrario alla pena di morte proponesse una modifica per migliorare le esecuzioni capitali: non più la sedia elettrica, così cruenta, bensì l’iniezione letale. La sostanza non muterebbe.
Si tratta di un antico vizietto di alcuni, e non pochi, politici cattolici: proporre il male minore. Ma il male, seppur minore, mai si può compiere. In merito al Testo unico sulle Dat invece, riprendendo un commento critico del Centro Studi Livatino, dobbiamo dire che lo stesso è totalmente irricevibile e non emendabile in meglio in alcun modo perché la sua stessa ratio è un ratio di morte. In sintesi, deve essere rifiutato in toto perché è una legge intrinsecamente ingiusta.
Non sono di questo avviso i senatori a vita Elena Cattaneo, Mario Monti, Renzo Piano e Carlo Rubbia che, “come Senatori a vita, chiamati ad esercitare un ruolo il più possibile libero da ogni condizionamento, appartenenza o calcolo” (sic), su Repubblica e il Corriere hanno pubblicato ieri un appello affinchè prosegua speditamente l’iter di approvazione di questo disegno di legge, non volendo cambiare una virgola di quest’ultimo. E’ urgente l’approvazione perché secondo loro la maggioranza degli italiani è favorevole (ma ammesso e non concesso che sia così, la verità rimane tale anche in minoranza), perché il living will è legge in altri paesi (ma se il tuo vicino di casa ammazza e ruba allora è giusto che lo faccia anche tu?) e perché “dà valore alla volontà di ciascuno, tutela la dignità di tutti”.
Per nulla vero dato che la volontà del paziente incosciente potrebbe essere mutata e le Dat non ne possono tenere in conto, né è rispettata quella del medico volta a non prestarsi ad un omicidio in camice bianco e neppure quella dei minori dato che decidono altri a posto loro. Occorre una legge secondo i quattro senatori perché ormai i casi “Englaro, Welby, Nuvoli e migliaia di altri meno noti” hanno creato precedenti che non si può più far finta di non vedere. A parte che sarebbe necessario documentare le altre migliaia di casi simili – in realtà inesistenti – c’è solo da commentare che i casi Englaro, Welby e Nuvoli non hanno messo in evidenza supposte lacune legislative, ma sono solo stati casi in cui i giudici non hanno applicato la normativa penale ed hanno pronunciato decisioni contra legem. Se vogliamo una norma per depenalizzare e addirittura legittimare i reati di omicidio, di omicidio del consenziente e di aiuto al suicidio, basta dirlo chiaramente.
Tommaso Scandroglio – La NBQ