«Domani un prete di meno», questa la motivazione che venne data dal commissario politico della formazione partigiana garibaldina che uccise nel 1945 il seminarista Rolando Rivi di 14 anni. Ci furono molte vittime fra il clero italiano durante la Seconda guerra mondiale e la guerra civile. Vittime dei nazisti, come don Giuseppe Morosini (1913-1944), accompagnato al supplizio dal Vescovo che lo aveva ordinato sacerdote, il futuro Cardinale Luigi Traglia (1895-1977), oppure come tanti sacerdoti e parroci assassinati dai partigiani e militanti comunisti,
anche oltre il 25 aprile, come don Umberto Pessina (1902-1946).
Scrisse il Vescovo di Reggio Emilia, Beniamino Socche (1890-1965), nel suo diario: «…la salma di don Pessina era ancora per terra; la baciai, mi inginocchiai e domandai aiuto (…). Parlai al funerale (…) presi la Sacra Scrittura e lessi le maledizioni di Dio per coloro che toccano i consacrati del Signore. (…) Il giorno dopo era la festa del Corpus Domini; alla processione in città partecipò una moltitudine e tenni il mio discorso, quello che fece cessare tutti gli assassinii. Io ̶ dissi ̶ farò noto a tutti i Vescovi del mondo il regime di terrore che il comunismo ha creato in Italia». In Emilia Romagna e soprattutto nel «Triangolo della morte» (Bologna, Modena, Reggio Emilia) perirono barbaramente 93 sacerdoti e religiosi; la maggior parte a seguito delle vendette dei «rossi». Fra le vittime anche Rolando Rivi, colpevole di indossare la talare.
Il Papa, il 27 marzo scorso, ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare i Decreti riguardanti 63 nuovi Beati e 7 nuovi Venerabili: molti sono martiri della guerra civile spagnola, dei regimi comunisti dell’Europa Orientale e del nazismo. Fra di loro c’è anche il giovane seminarista, del quale libri di storia e mass media hanno debitamente taciuto… per non sporcare l’ “eroica” memoria della Resistenza rossa.
Rolando Maria Rivi nacque il 7 gennaio 1931 a San Valentino, borgo rurale del Comune di Castellarano (Reggio Emilia), in una famiglia profondamente cattolica. Brillante e vivace, di lui si diceva: «o diventerà un mascalzone o un santo! Non può percorrere una via di mezzo». Con la prima Comunione e la Cresima divenne maturo e responsabile. Rolando, ogni mattina, si alzava presto per servire la Santa Messa e ricevere la Comunione. All’inizio di ottobre del 1942, terminate le scuole elementari, entrò nel Seminario di Marola (Carpineti, Reggio Emilia). Si distinse subito per la sua profonda fede. Amante della musica, entrò a far parte della corale e suonava l’armonium e l’organo.
Quando stava per terminare la seconda media, i tedeschi occuparono il Seminario e i frequentanti furono mandati alle loro dimore. Rolando continuò a sentirsi seminarista: la chiesa e la casa parrocchiale furono i suoi luoghi prediletti. Sue occupazioni quotidiane, oltre allo studio, la Santa Messa, il Tabernacolo, il Santo Rosario. I genitori, spaventati dall’odio partigiano, invitarono il figlio a togliersi la talare; tuttavia egli rispose: «Ma perché? Che male faccio a portarla? Non ho voglia di togliermela. Io studio da prete e la veste è il segno che io sono di Gesù».
Questa pubblica appartenenza a Cristo gli fu fatale. Un giorno, mentre i genitori si recavano a lavorare nei campi, il martire Rolando prese i libri e si allontanò, come al solito, per studiare in un boschetto. Arrivarono i partigiani, lo sequestrarono, gli tolsero la talare e lo torturarono. Rimase tre giorni loro prigioniero, subendo offese e violenze; poi lo condannarono a morte. Lo condussero in un bosco, presso Piane di Monchio (Modena); gli fecero scavare la sua fossa, fu fatto inginocchiare sul bordo e gli spararono due colpi di rivoltella, una al cuore e una alla fronte. Poi, della sua nera e immacolata talare, ne fecero un pallone da prendere a calci. Era venerdì 13 aprile 1945.
Autore: Cristina Siccardi
Giovanissimo martire
Ha testimoniato di lui un suo compagno di Seminario, ora prete e parroco: “Rolando era vivace e svelto in tutti i giochi, a pallone a pallavolo. Il campione della classe, della sua camerata. Attentissimo a scuola, molto studioso, esemplare, innamoratissimo di Gesù. Tutto in lui era superlativo. Si stava volentieri con lui: contagiava gioia e ottimismo. Era l’immagine perfetta del ragazzo santo, ricco di ogni virtù, portata nella vita quotidiana all’eroismo”.
Papà Roberto era orgoglioso che il buon Dio gli avesse dato un figlio così e già pregustava la gioia di vederlo sacerdote. Ma nel 1944, il Seminario, a causa della guerra, fu chiuso. Rolando, rientrato in famiglia a S. Valentino, viveva, nonostante le difficoltà, la sua stessa vita ardente e luminosa, intessuta di preghiera e di studio, di amore intenso a Gesù Eucaristico, di pietà mariana.
Il momento era difficilissmo, per le scorribande di tedeschi, fascisti e partigiani; l’odio alla Chiesa e ai preti diffuso e rabbioso. Venne a sostituire il parroco, un givoane curato, don Alberto Camellini. Rolando con i suoi amici seminaristi di S. Valentino, diceva spesso: “Preghiamo per tornare al più presto in Seminario. Quando sarò prete, partirò come missionario a portare Gesù a quelli che non lo conoscono”.
Non temeva né derisione né minacce – che non gli mancavano – segnato a dito, come “il pretino”. A chi gli chiedeva di vestire come gli altri ragazzi, rispondeva: “Non posso lasciare la mia veste: è il segno che io appartengo al Signore”.
Il 10 aprile 1945, finì in mano a un gruppo di partigiani comunisti a Monchio (Modena). Lo portarono nella loro base e lo processarono come un colpevole (colpevole della sequela Christi!). Poi emisero la sentenza: “Uccidiamolo, avremo un prete in meno”. In un bosco, presso Piane di Monchio, dopo averlo percosso e malmenato senza pietà, gli scavarono la fossa… Mentre Rolando, inginocchiatosi, pregava il suo Gesù per sé, per i suoi genitori, forse per gli stessi aguzzini, questi lo presero a calci, poi, con due colpi di rivoltella al cuore e alla fronte, lo finirono barbaramente.
Era il 13 aprile 1945, un venerdì, quando Rolando Rivi, a 14 anni appena, fu freddato nel clima di odio contro la Chiesa e i sacerdoti.
L’indomani, papà Roberto e don Camellini ritrovarono il suo corpo martoriato. Sepolto provvisoriamente a Monchio, un mese dopo, tornava a S. Valentino tra la sua gente in lacrime che guardava a lui, come a un piccolo angelo, della razza dei martiri, uccisi dai senza-Dio, dai primi secoli cristiani a quelli contemporanei della Russia, del Messico e della Spagna. Sulla sua tomba, papà Roberto fece scrivere le parole da lui composte: “Tu che dalle tenebre e dall’odio fosti spento, vivi nella luce e pace di Cristo”.
Al di là dell’odio
Su quell’ immane tragedia, papà Roberto disse soltanto: “Perdono”. Era straziato, ma con la sua fede grandissima riprese a vivere infondendo coraggio ai suoi e illuminando il dolore con la preghiera incessante, sentendosi quasi chiamato a compiere il bene al posto di Rolando.
Il martirio del figlio seminarista lo spinse a fondo, a impegnarsi in prima persona, negli anni del dopoguerra affinché l’Italia non cadesse sotto un’altra dittatura, e a costruire una società cristiana. Nel tempo del conflitto, gli erano morti al fronte, lontanissimo da casa, i due fratelli Rino e Adolfo, e in casa, la sorella Lina. Negli anni che verranno, altri lutti e dolori proveranno la sua forte tempra e la sua fede invincibile.
Stupiva chi lo avvicinava, persino i sacerdoti che lo stimavano e ne amavano la compagnia, e la sorella suora. “Con tutto quanto ha patito, come piò essere così forte e sereno?”. La sua risposta era la Croce di Cristo. Così papà Roberto portava la sua fede davanti a chiunque, sempre “uno con Gesù”: nella famiglia, nel lavoro, nei rapporti sociali, nel modo di intendere le cose e le scelte quotidiane. Una vera mentalità di fede, la sua, tradotta nelle opere, in semplicità e letizia.
Gli anni passavano e la sua esistenza si faceva sempre più traboccante di preghiera: la Messa e la Comunione quotidiana, in un colloquio prolungato con Gesù, per la Chiesa, per i sacerdoti, per la conversione del mondo, fino al punto di riconoscere, con il suo amico don Ugolini: “Io starei sempre davanti al Signore del Tabernacolo”.
La via Crucis diventò la sua preghiera prediletta: la ripeteva anche sette volte al giorno, tenendo la foto di Rolando tra le mani, ricordando al divino Sofferente i suoi familiari, gli amici, i sacerdoti e… coloro che gli avevano fatto del male.
Il 22 ottobre 1992, a 89 anni, papà Roberto rivedeva il suo Rolando e i suoi cari che lo avevano preceduto in Paradiso. Chi lo ha conosciuto di persona o semplicemente lo ha sentito qualche volta per telefono è rimasto incantato dalla sua fede granitica e dolce: anche lui, la sua vita, come Rolando, l’aveva consumata per Gesù, nostro Re e Signore.
Rolando Rivi fu, ed è, una delle tante stelle luminose del firmamento affollato dei martiri, specie del XX secolo, che passando dalla Rivoluzione Messicana, alla Guerra Civile Spagnola, alla Rivoluzione e persecuzione in Russia o vittime delle due Guerre Mondiali, hanno testimoniato con il loro sangue innocente, la fede in Cristo seguendolo lungo il Calvario.
Dopo 60 anni, il 7 gennaio 2006, l’arcivescovo di Modena mons. Benito Cocchi, ottenuto il nulla osta dalla Santa Sede il 30 settembre 2005, ha dato inizio, nella chiesa modenese di Sant’Agostino, al processo diocesano per la beatificazione del seminarista Rolando Rivi, martire innocente, caduto sotto l’odio anticlericale e anticristiano del tempo, per aver voluto testimoniare, indossando l’abito talare fino all’ultimo, la sua appartenenza a Cristo.
E’ stato beatificato a Modena il 5 ottobre 2013.
La ricorrenza liturgica per le diocesi di Reggio Emilia-Guastalla e di Modena-Nonantola è stata fissata al 29 maggio.
Dal Vangelo secondo Matteo: “ …Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo , diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi…” (5,11-12)