Aveva vinto il Premio della Bontà nel 2014. Muore poco dopo che i suoi genitori si sono sposati in Chiesa, proprio come aveva desiderato lei
A volte le parole possono davvero aiutare.
Perché un conto è dire “seppellisco la mia bambina” un altro è sapere che la sto accompagnando al cimitero. Cimitero significa dormitorio. Hanno messo a letto la loro bambina. Aurora.
Morta a otto anni, il 10 agosto 2017. Solo otto anni. Aurora, che nel nome ha scritto che è nata per arrivare per prima e spargere luce. Acquarellare il cielo di rosa e violetti e promettere il sole. La luce piena, intera, gialla. Il giorno.
Ho letto anche sulle pagine di cronaca cittadina del Corriere e su Il Mattino di Padova della sua vita. Di come la metà sia stata spesa in ospedale e comunque in aperta battaglia contro il neuroblastoma che l’aveva colpita. Ho letto del fatto che era molto amata, dai genitori, i nonni, la sorellina. I compaesani, i compagni, il parroco.
Era già finita sui giornali perché nel 2014, ancora all’inizio della sua malattia, aveva ingaggiato una raccolta fondi per il reparto oncoematologico dell’ospedale pediatrico padovano.
Della sua capacità di motivare, coinvolgere, attirarsi affetto e simpatia e convincere le persone a spendere tempo e soldi per dare sollievo a bambini gravemente malati e a fornire attrezzature utili a migliorare diagnosi e terapie. Cose piccole, per carità, eppure grandi, commoventi, al loro modo potenti. Di quella potenza evangelica, già biblica. Quella del Dio che con la bocca di bambini e lattanti rende nota la Sua forza.
Aveva ricevuto il “Premio della Bontà Sant’Antonio di Padova” per quel salvadanaio riempito con caparbietà da lei e da chi si era fatto convincere ad imitare la sua generosità. Quella dei bambini che vedono un bisogno e provano seriamente, in modo tutt’altro che infantile, a rispondervi.
Aurora ha gli occhietti vispi, due virgole sorridenti nelle foto che si possono vedere sul web quando la malattia ancora non aveva affondato i denti troppo a fondo.
Gli ultimi scatti risalgono a pochi giorni prima della morte. Lei era in carrozzina, ma calzava una corona di fiori.
Valentina e Mirko, la sua mamma e il suo papà, si erano sposati.
Era lei, soprattutto, che lo desiderava tanto. Stupisce davvero vedere come Aurora fosse concentrata sull’essenziale, conficcata al centro delle cose importanti della vita; sebbene da qua possiamo solo sfiorare la superficie della sua piccola vita e con necessaria approssimazione provare ad intuire le passioni, gli affetti e il segreto movente che ha sospinto con innegabile vigore la sua breve esistenza. Come l’unica vela bianca di un Optimist, quelle barchette con le quali di solito ci si avvicina alla disciplina nautica.
È come se, avendo poco tempo, avesse ancora di più acuito lo sguardo ed addestrato la mira.
“Amo mamma e papà, amo la nostra famiglia. Papà, prometti davanti a Dio e con l’aiuto di Dio che mamma sarà per sempre tua moglie! Mamma, consegnati definitivamente al papà”.
Non so quale coscienza avesse lei del valore del Sacramento del Matrimonio (io sono portata a credere ne avesse una coscienza vera. Non superficiale, sebbene fosse piccina); quanto abbia influito il desiderio di vivere un bel giorno, di gustarsi magari la cerimonia e la festa (ma quanto poco avrà potuto pensarci, ridotta allo stremo delle forze? Poco, pochissimo. La sofferenza non scherza, nemmeno coi bambini).
Resta il fatto, sorprendente, che il suo aggravamento, il vero crollo precedente la morte è avvenuto la sera stessa, dopo la celebrazione. Ha resistito fino a che ha potuto. Ha recuperato forze nascoste per l’ultima cosa importante. Ha fatto comandare la volontà sul corpo che la malattia esigeva sfinito. Si è mantenuta a cavallo con quell’anima forte, pura, grande. Oh, come sanno essere seri, eroici, metafisici i fanciulli…!
Nello strazio terribile che a Valentina e Mirko non è stato risparmiato, vedere soffrire e morire la propria bambina, la mamma dichiara che hanno trovato la forza proprio in lei, in Aurora. Avrà permesso ai suoi genitori di sostenerla, consolarla, curarla. Non di compatirla. Concentrati sul presente, sulla speranza fino a che c’era. Con intelligenza e senso di realtà.
Una bambina così, insomma. Che ha vissuto, sofferto, lottato. E sorriso, giocato. Pianto. Raccolto fondi, vinto premi e riconoscimenti (anche quello di “Cittadino dell’anno” sempre nel 2014, a giugno), attirato affetto e simpatia di medici e infermieri, fatto sposare i propri genitori. Una piccola guerriera, come la chiama la presidente del Team Children, che a lei come ad altri bambini, riconosce la purezza della vera generosità.
Sotto l’articolo del Mattino qualcuno chiede dove possa stare in Dio in quei momenti. Con che coraggio Dio possa darsi alla macchia proprio in questi frangenti, sembra chiedere.
Ma noi siamo il popolo che ha conosciuto il Dio in croce. Quello che ha sofferto. Che non ha risparmiato a Sua mamma di guardarLo mentre veniva torturato e crocefisso. Noi siamo il popolo che ha conosciuto la notizia della Resurrezione.
Siamo il popolo che dovrebbe ricordarsi che se così grande può essere il dolore quanto immensa, smisurata, travolgente dovrà essere la riparazione. Quanto indicibile il luogo della Consolazione. Aurora, intanto, è stata accompagnata a dormire. Il suo corpo, non la sua anima.
Siamo cristiani, siamo di Cristo. Siamo obbligati dalla gioia a ricordarci e a ricordare al mondo che Cristo è veramente Risorto. E, saputo questo, cambia tutto. Tutto.
Aurora Maniero, con la sua faccina, la sua storia, il suo cognome, il suo accento veneto; una bimba vera, degli anni duemila, di quelle che magari guardavano Frozen e cantavano Violetta o (peggio) Ariana Grande, non lo so…ora saprà quello che possiamo ritenere avesse già intensamente intuito.
Paola Belletti/Aleteia Italia