Gentile Magister,
sono una consacrata nella vita eremitica e sto seguendo molto attentamente e, per quanto umanamente possibile senza pregiudizi, il dibattito sulla comunione ai divorziati risposati, per capire se un’eventuale decisione del papa a questo riguardo rientri davvero nelle sue prerogative – il potere delle chiavi –, oppure se di queste chiavi se ne voglia fare un duplicato all’insaputa, si fa per dire, del Padrone di casa, per introdurvi, con l’inganno, chi non ha l’abito nuziale (Mt 22, 1-14), venendo così meno alla fiducia accordata.
Desidero sottoporle un ragionamento molto semplice nella forma, ma essenziale nel contenuto per cercare di cogliere il cuore del problema.
Se la Chiesa dà la possibilità di comunicarsi a chi, non potendo percorrere la strada dell’annullamento del precedente matrimonio, si è sposato civilmente o convive con un’altra persona, pur essendo sacramentalmente unito sempre al primo coniuge (“una sola carne” dice il Padrone di casa), allora vuol dire che la Chiesa stessa ritiene possibile che si possa accogliere il sacramento della infinita santità di Dio facendolo tranquillamente convivere, nella stessa casa – corpo e anima del ricevente – con il peccato, perché l’adulterio resterebbe comunque un peccato a meno che non si cambi la dottrina.
Le pare possibile? Direi proprio di no, se conosciamo, anche solo lontanamente, che cosa sia il peccato. Ed è Dio stesso a ricordarcelo con l’immacolata concezione di Maria che ne viene preservata proprio in vista di ricevere nel suo corpo l’ostia santa, cioè il corpo e sangue di Gesù.
Perché? Perché Dio esige di non coabitare con il peccato!
Io penso che, a furia di cavillare sugli aspetti giuridici e sentimentali, cioè prettamente umani, della questione, si perdano di vista la dimensione soprannaturale della nostra vita, il volto del Dio eterno e santo e la misteriosa potenza dei suoi comandi, cioè della sua volontà che non deve necessariamente essere capita, ma soltanto accolta, perché viene da Lui.
Ricevere l’eucaristia in una situazione di peccato grave vuol dire non solo trasgredire un comandamento, ma, e qui sta l’empietà, forzare il Signore a convivere con il male. Si commette un abominio, per usare una parola che suona molto male alle nostre orecchie così moderne, ed è questo l’anello mancante nell’infinita discussione sull’argomento: la santità di Dio.
Perché si vuole concedere alle persone che si trovano in questa situazione la possibilità di cadere in un peccato così tremendo? La Chiesa vuole davvero suggerire ai suoi figli che il Santo di Dio e il Divisore per eccellenza possano stare insieme?
Ecco qual è il cuore del problema: che il peccato viene rimosso per non doverlo riconoscere come tale, perché dà fastidio e fa da inciampo ai nostri piani. Ma questa rimozione, togliendolo dal suo giusto posto, alla fine viene a collocarlo, paradossalmente, nello stesso “luogo” di Dio.
Ci stiamo accorgendo di che cosa significhi questo spostamento?
“Il tentativo orribilmente privo di senso, e tuttavia eccitante fino alle radici, di spodestare Dio, di far scendere di grado Dio, di distruggere Dio… l’uomo deve ammettere in assoluto la profondità del peccato… deve deporre l’orgoglio del suo destino, la caparbietà che vuol fare i fatti propri e vivere la propria vita, e apprendere l’umiltà che ricerca la grazia” (Romano Guardini, “Il Signore”, p. 175).
Molti obietteranno: mentalità da Antico Testamento, quando non c’era ancora la misericordia portata da Gesù. Ma si sbagliano e di molto.
I “fu detto” e i “ma io vi dico” di Gesù nel Discorso della montagna (Mt 5-7) – quindi nello scenario delle beatitudini – ci introducono nella vita nuova in cui legge antica e moralismo lasciano il posto alla fede e alla grazia, ma chiedono ed esigono molto di più di quanto richiedeva la legge dell’Antico Testamento, perché a Gesù non interessa tanto farci stare comodi nella vita di questo mondo, quanto la nostra salvezza eterna.
La redenzione ha un’assoluta necessità di far sparire completamente il peccato e di non venire più a patti con esso. Con la “pienezza del tempo” ci viene richiesto quello che non era richiesto all’uomo dell’AnticoTestamento: la totalità dell’obbedienza, perché ora, con la redenzione, noi siamo abilitati a poterla mettere in pratica. Dicendo “Avete udito che fu detto agli antichi: non commettere adulterio… Ma io vi dico che chiunque guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio”, Gesù dice che il senso del comandamento va più in profondità, va all’intenzione, perché è dall’intenzione che nasce l’azione (ancora Guardini, p. 116).
Nel lungo discorso di Gesù non troviamo una misericordia a buon mercato così come la intendiamo noi, ma una concezione del peccato finissima, non grossolana, in un crescendo di tono e di tensione, tanto che, alla fine, l’evangelista deve prendere atto che “la folla era ‘spaventata’ dal suo insegnamento” (Mt 7, 28).
A Gesù non interessa una pura dottrina dei costumi morali ma un’esistenza piena, totalmente redenta. Allora cerchiamo di capire che qui non si tratta di concedere un diritto a qualcuno (mentalità legalista) ma di mettere le mani sulla santità di Dio. Stiamo andando a toccare l’Intoccabile e a “costringerlo” a coabitare con il Signore del male.
Il non ricevere l’eucaristia, nei casi dei quali parliamo, non pregiudica la salvezza eterna, non toglie l’abito nuziale di cui si parlava all’inizio, mentre il riceverla indegnamente toglie tutto (1 Cor 11). Non facciamo sprofondare i nostri fratelli in uno stato infinitamente peggiore di quello nel quale si trovano. Questo è fare il gioco del nemico.
Se la Chiesa vuol concedere questa possibilità vuol dire che li giudica già come morti e intende quindi forzare Dio a far proprie le sue indicazioni e contromisure.
Ma chi siamo noi per giudicare in anticipo questi nostri fratelli e per dettare tempi e modi a Dio? Le nostre vie non sono le sue vie (cfr Is 55, 8).
Un cordiale saluto e un grazie per il suo lavoro.
Giovanna Riccobaldi
da «Settimo Cielo», pubblicato ne: Il Timone