In questa torrida estate torna di attualità il tema della cosiddetta “correzione formale” del Papa, una eventualità richiamata dal cardinale statunitense Raymond Leo Burke fin dal novembre 2016, poco tempo dopo la pubblicazione dei cinque dubia sottoposti a Francesco per l’ambigua interpretazione di alcuni passaggi dell’esortazione Amoris laetitia.
Burke, che è uno dei 4 cardinali che hanno sottoscritto i dubia, gli altri sono il defunto Jochim Meisner, e i cardinali Walter Brandmuller e Carlo Caffarra, in una recente intervista al sito tradizionalista statunitense The Wonderer, ha spiegato cosa intende quando parla di “correzione formale”. Si tratterebbe, a suo parere, di una affermazione sui punti controversi di «ciò che la Chiesa insegna sul matrimonio, sulla famiglia, sugli atti intrinsecamente malvagi e così via». Quindi, sarebbe una esplicitazione «degli insegnamenti chiari della Chiesa» rispetto ai dubia.
Negli stessi giorni un grande teologo domenicano, padre Aiden Nichols, con insegnamenti a Oxoford e all’Angelicum di Roma, ha sollevato una questione importante connessa alla possibile “correzione formale”. In una conferenza presso una società ecumenica, la Fellowship of St. Alban e St. Sergius, ha detto che, a suo parere, né i codici occidentali, né quelli orientali della legge canonica contengono una procederua che comprende la possibilità di una “correzione formale” del pontefice. Eppure, sostiene Nichols, «tenendo conto dei limiti previsti dall’indeffettibilità papale, la legge canonica potrebbe prevedere una procedura formale per indagare se un papa avesse insegnato errori». La prospettiva di studio indicata è suggestiva e riguarda, appunto, un lavoro da compiere sul codice di diritto canonico. L’interesse è alto anche perchè la formalizzazione di una ipotesi di questo tipo andrebbe in qualche modo ad approfondire i contorni del dogma dell’infallibilità stabilito dal concilio Vaticano I.
Quindi, secondo Nichols, per poter veramente procedere alla cosiddetta “correzione formale” richiamata da Burke sarebbe necessario prima definire una procedura che tenga conto di questa possibilità. In effetti, a ben vedere, la spiegazione offerta dal cardinale Burke in merito all’essenza di questa correzione, così come lui la intende, assomiglia di più ad una affermazione positiva dell’insegnamento della chiesa, piuttosto che una indicazione diretta dell’eventuale errore nel magistero da parte del Papa.
Ma non tutti concordano con Nichols e l’eventualità che occorra metter mano al codice per procedere alla correzione. Il canonista statunitense Edwar Peters, dopo l’intervento di Nichols, ha scritto nel suo blog che già ora il canone prevede limiti alla libertà di azione del pontefice, inoltre, «la tradizione, non la legge canonica, impegna la Chiesa ad accettare una serie di verità (…) in modo tale che un Papa che improvvisamente le sfidasse, o avesse accondiscendenza per altri che lo fanno, avrebbe bisogno di preghiere urgenti e sarebbe un oggetto appropriato per una qualche correzione».
In questo dibattito estivo dobbiamo segnalare anche lo studio che il cardinale Walter Brandmuller ha pubblicato sulla rivista tedesca Die Neue Ordnung. Da storico, il cardinale rileva la presenza di una tradizione, che risale al V secolo, per cui un papa appena eletto comunicherebbe la sua professione di fede (Professio fidei). In uno di questi testi, risalente forse al VII secolo, «il nuovo papa dichiara la vera fede così come è stata fondata da Cristo, passata a Pietro, e poi trasmessa dal suo successore fino all’ultimo papa appena eletto, così come l’ha trovata nella Chiesa e che ora desidera proteggere con il proprio sangue». Inoltre, il nuovo papa si impegna a confermare e conservare tutti i “decreti” dei suoi predecessori. Secondo Brandmuller la Professio fidei dei papi sono sempre state fatte e concepite in «reazione a gravi minacciose crisi di fede», e conclude il suo studio dicendo che «chiunque considera questa scoperta storica alla luce del nostro tempo può ben chiedersi quale conclusione si possa trarre per la Chiesa dei nostri giorni». Sembra perciò che questo studio auspichi, forse in modo un po’ ingenuo, che il Papa stesso, in relazione ai dubia, procedesse con una sorta di “auto-correzzione” mediante una dichiarazione.
A quanto apprende La Nuova BQ possiamo dire che è molto difficile, nonostante le varie pressioni che vengono fatte a livello mediatico, che si possa arrivare ad una correzione formale che indichi in modo diretto l’errore del Papa. Lo stesso Burke nella sua intervista ha detto che «è assolutamente contrario a qualunque forma di scissione formale, uno scisma non potrebbe mai essere corretto».
Questo riaccendersi del dibattito segnala però una significativa riflessione sul tema, forse punta dell’iceberg di una difficoltà rispetto alle oggettive ambiguità che si sono verificate in ordine all’interpretazione del capitolo VIII di Amoris laetitia tra vescovi e teologi. Come ha rilevato il teologo Nichols, alcuni hanno interpretato il testo come se i divorziati risposati, in certi casi, possono ricevere la Comunione anche senza l’impegno a vivere “come fratello e sorella”. Altri, invece, hanno detto che ciò sarebbe possibile, nonostante l’insegnamento della Chiesa, riaffermato più volte dai papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, dica il contrario.
Lorenzo Bertocchi
in La NBQ