Padre Antonio Spadaro, intervenendo sul Fatto quotidiano del 1° dicembre a proposito della Messa di Natale, osserva che ciò che conta a livello simbolico non è «l’orario esatto – che sia la mezzanotte o qualunque altra ora – ma il fatto che si celebri quando non c’è luce, quando è buio. E questo proprio per rendere evidente il senso simbolico della festa. Tuttavia la Messa non è la “Messa di mezzanotte”, ma “della notte”. Se si comprende il ragionamento, si comprende pure che la celebrazione della notte che dovesse svolgersi quando è buio, ma in un orario precedente alla mezzanotte, non fa di certo “nascere” Gesù in anticipo».
Tutto giusto. A patto però di non ridurre la celebrazione del Natale ad un qualcosa di meramente simbolico. E questo perché con buona pace del “fastidio” di san Clemente Alessandrino citato in apertura da padre Spadaro, oggi possiamo affermare che la festa, anzi la solennità del Natale ha un fondamento storico sicuro. Che poi questo al semplice credente importi poco o nulla ai fini di ciò che il Natale significa, può anche essere. Ma, intanto, è tutto da dimostrare che le cose stiano effettivamente così; inoltre, e cosa più importante, in questa come in altre occasioni bisogna fare attenzione a maneggiare con estrema cura la materia del contendere onde evitare di far passare il messaggio – caro a certa esegesi che fin troppi danni ha fatto avendo voluto distinguere tra il “Gesù della storia” e il “Cristo della fede” – che il cristianesimo sia ultimamente basato sull’aria fritta, che non abbia cioè alcun fondamento storico. Il che, tanto per essere chiari, è falso.
IL CULTO PAGANO DEL NATALIS SOLIS INVICTI
Tornando al Natale, la vulgata – confermata dallo stesso padre Spadaro – vuole che tale festa fosse in origine un culto pagano, quello del Natalis Solis Invicti, che cadendo in coincidenza col solstizio d’inverno celebrava la nascita del nuovo corso solare. Solo in seguito la Chiesa sostituì il culto pagano del sole nascente con la festa della nascita del nuovo sole dell’umanità, cioè Gesù. Questa, ridotta all’osso, la “storia” del Natale che ci è stata insegnata.
In realtà, come documentò per primo il grande liturgista Tommaso Federici che ne scrisse sull’Osservatore Romano alla vigilia di Natale del 1998, le cose stanno diversamente; ed oggi, anche grazie ai documenti di Qumran, è possibile affermare che Gesù nacque realmente un 25 dicembre. La scoperta si deve soprattutto ai lavori di due specialisti, Annie Jaubert e Shemariahu Talmon. In breve: se Gesù è nato il 25 dicembre, il concepimento deve essere avvenuto, ovviamente, nove mesi prima. E non a caso il calendario cristiano pone al 25 marzo l’Annunciazione a Maria. E l’evangelista Luca ci dice anche che giusto sei mesi prima era stato concepito Giovanni Battista, il precursore. Quel concepimento, che non viene ricordato nella Chiesa d’Occidente, le antiche Chiese d’Oriente lo celebrano solennemente tra il 23 e il 25 settembre, appunto sei mesi prima dell’Annunciazione a Maria.
Ci sarebbe dunque una successione di date logica, e in effetti è giusto dal concepimento di Giovanni che bisogna partire. Il Vangelo di Luca si apre con la storia di Zaccaria ed Elisabetta, ormai rassegnata alla sterilità. Sempre da Luca sappiamo che Zaccaria apparteneva alla classe sacerdotale di Abia, e che quando ebbe l’apparizione «officiava nel turno della sua classe». Ora si ha che i sacerdoti nell’antico Israele erano divisi in ventiquattro classi le quali, dandosi il turno con una cadenza fissa, prestavano servizio liturgico nel tempio per una settimana, due volte l’anno. Si sapeva anche che la classe di Zaccaria, quella di Abia, nell’elenco ufficiale era l’ottava, senza conoscere però quando cadevano i suoi turni di servizio.
E QUI ENTRA IN GIOCO IL PROFESSOR TALMON
Utilizzando anche studi e ricerche di altri specialisti, e lavorando, soprattutto, sui testi esseni di Qumran, lo studioso ebreo è riuscito a precisare in quale ordine cronologico si susseguivano le ventiquattro classi sacerdotali. A quella di Abia toccava, come le altre, il servizio liturgico al Tempio due volte l’anno, ed una di quelle volte capitava proprio nell’ultima settimana di settembre: le Chiese orientali avevano dunque ragione a celebrare tra il 23 e il 25 settembre l’annuncio a Zaccaria. Ragione che presto è diventata certezza, perché in seguito gli studiosi, sulla scia delle scoperte di Talmon, hanno saputo ricostruire la genesi di quella antica tradizione giungendo alla conclusione che essa proveniva direttamente dalla Chiesa giudeo-cristiana di Gerusalemme.
Ecco allora che ciò che sembrava leggendario e mitologico, d’incanto assumeva nuova luce e credibilità. Questa, dunque, la successione dei fatti, disposti su un arco temporale di quindici mesi: in settembre l’annuncio a Zaccaria e il concepimento di Giovanni; a marzo, sei mesi dopo, l’annuncio a Maria; a giugno, tre mesi dopo, la nascita di Giovanni; infine sei mesi dopo, il 25 dicembre, la nascita di Gesù. In conclusione: fissando in quel giorno la festa del Natale del Signore, la Chiesa non ha fatto una scelta arbitraria dettata da motivi pastorali o, peggio ancora, politici. Come scrisse Federici, «quando la Chiesa celebra la nascita di Gesù nella terza decade di dicembre, attinge all’ininterrotta memoria delle prime comunità cristiane riguardo ai fatti evangelici e ai luoghi in cui accaddero… il 25 marzo e il 25 dicembre per l’annunciazione del Signore e per la sua nascita non furono arbitrarie, e non provengono da ideologie di riporto».
LA FEDE NON SI FONDA SULLE FAVOLE
A riprova che la fede non si fonda sulle favole ma, appunto, su fatti storici. Quanto al significato del Natale, il Credo che in ogni Messa viene professato dice una cosa tanto precisa quanto spesso e volentieri dimenticata: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». Per noi uomini e per la nostra salvezza: il Natale – questa festa che ogni anno che passa assume sempre più la triste ritualità di un lavacro collettivo delle coscienze ricoperto da una massiccia coltre di sentimentalismo e di buonismo peloso un tanto al chilo, ovviamente in chiave anti-consumistica perché, chiaro, il Natale o è povero o non è – ad un uomo che ha scelto di vivere etsi Deus non daretur e che ora si ritrova terrorizzato a causa di un virus neanche troppo pericoloso, viene a ricordare una cosa che suona inaudita e scandalosa (e infatti l’abbiamo disinnescata smontandola pezzo dopo pezzo), ossia che abbiamo bisogno di essere salvati.
Ma non dal Covid-19, che al massimo può uccidere il corpo. E qui la musica cambia. Salvati? E da cosa, esattamente? Ancora con la vecchia storia dell’inferno e della dannazione eterna e dei diavoli che ci tormentano coi forconi? Suvvia, non scherziamo. Piuttosto, vedete di sanificarle le feste, che almeno torna utile a tutti.
In effetti, se uno guarda a certi dibattiti teologici o a certa omiletica (che se possibile la fede te la toglie anziché confermartela) gli indizi che la salvezza sia scomparsa dai radar sono più d’uno. Al punto che ampi settori ecclesiali sembrano essere più interessati alla salvezza dell’economia che non all’economia della salvezza. Come se Cristo si fosse lasciato maciullare così, perché ciascuno viva come meglio può sapendo che all’occorrenza, tranquilli, la Chiesa che accompagna gli uomini e le donne del suo tempo nella loro fatica quotidiana c’è e ci sarà sempre; o magari per un mondo più giusto («i poveri li avrete sempre con voi», do you remember?), più equo e solidale, più salubre, con pari opportunità per tutti, più buono. Non perché dopo la morte esiste qualcosa di veramente orribile, come reale possibilità per ogni uomo, no. Ma tant’è. Come tanti altri fenomeni, anche la progressiva secolarizzazione del Natale viene da lontano.
IL CARDINALE RATZINGER
In una straordinaria omelia del 25 dicembre 1978, l’allora cardinale Ratzinger aveva intravisto con estrema lucidità quello che stava succedendo e che sarebbe accaduto, e per questo va la pena riportarne un ampio stralcio:
«Oggi nella cristianità questi dogmi non contano più molto. Ci sembrano troppo grandi e troppo remoti per poter influenzare la nostra vita. E ignorarli o non prenderli troppo in considerazione, facendo del figlio di Dio più o meno il suo rappresentante, sembra essere quasi una specie di “trasgressione perdonabile” per i cristiani.
Si adduce il pretesto che tutti questi concetti sono talmente lontani da noi che non riusciremmo mai a tradurli a parole in modo convincente e in fondo neppure a comprenderli. Inoltre ci siamo fatti un’idea tale della tolleranza e del pluralismo, che credere che la verità si sia effettivamente manifestata sembra essere nientemeno che una violazione della tolleranza.
Però, se pensiamo in questo modo, cancelliamo la verità, facciamo dell’uomo un essere a cui è definitivamente precluso il vero e costringiamo noi stessi ed il mondo ad aderire ad un vuoto relativismo. Non riconosciamo quello che di salvifico c’è nel Natale, che esso cioè dà la luce, che si è manifestata e si è rivelata a noi la via, che è veramente via perché è la verità.
Se non riconosciamo che Dio si è fatto uomo non possiamo veramente festeggiare e custodire nel nostro cuore il Natale, con la sua gioia grande che si irradia oltre noi stessi. Se questo fatto viene ignorato, molte cose possono funzionare anche a lungo, ma in realtà la Chiesa comincia a spegnersi a partire dal suo cuore. E finirà per essere disprezzata e calpestata dagli uomini, proprio nel momento in cui crederà di essere diventata per essi accettabile».
LA VERITÀ SI È MANIFESTATA IN GESÙ
L’Incarnazione, ciò che il Natale celebra, dice esattamente questo: che la Verità si è manifestata nella persona di Gesù di Nazareth, vero Dio e vero uomo. Quello stesso Gesù che non a caso disse «io sono via verità e vita», affermazione troppo spesso sottaciuta nella Chiesa in nome di una miope concezione del dialogo che – soprattutto in chiave anti-fondamentalismo – porta ad escludere a priori ogni pretesa veritativa. E dire che basterebbero questi versetti di Luca per sgomberare il campo da ogni possibile equivoco: «Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera» (Lc 12, 51-53).
Parole che se, da un lato, non autorizzano ovviamente alcuna rilettura di un Cristo guerrafondaio, dall’altro, neanche lasciano scampo a certo irenismo frou frou. Il motivo è semplice: checché ne dicano i suoi demolitori, in primis interni, la fede è per sua natura divisiva, altro che inclusiva. E lo è perché la verità, a sua volta, è divisiva, costringendo a stare da una parte o dall’altra. Questa, a ben vedere, è la domanda che il Natale, tanto più in quest’anno straordinario, pone alla Chiesa: se cioè essa ritenga ancora che esista una verità, e che tale verità è Gesù Cristo, e che questo Gesù Cristo è disceso dal Cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria «per noi uomini e per la nostra salvezza». Magari tornando anche a dire qualcosa di cattolico.
Luca Del Pozzo in Basta Bugie