Nel Vangelo Gesù applica a sé vari immagini. Durante il Vangelo feriale in queste giorni abbiamo letto di come lui si attribuisca l’immagine del pane di vita, facendo il confronto con la manna che ha sostenuto il cammino degli ebrei nell’Esodo.
Nel Vangelo di oggi due sono le immagini che riferisce a sé stesso: quella del pastore e quella della porta.
Quella del pastore ha una precisazione: buon. Gesù è il pastore buono, un pastore unico perché supera e va oltre ogni modello di pastore, anche se prudente, pieno di buon senso, perché nell’ immagine di questo pastore ci viene svelato l’amore e la sollecitudine che Dio ha per noi.
Nella figura del pastore viene descritto il rapporto che egli instaura con le “pecore”, che siamo poi noi, ma anche quello che le pecore hanno con lui.
“Egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei”
Vi è una conoscenza e una relazione personale fra il pastore e le pecore– chiama ciascuna per nome-. Non è una conoscenza superficiale o banale, ma scende in profondità, al cuore stesso di ciascuna creatura, di ciascuno di noi e questa conoscenza diventa cura e provvidenza. Bellissima è la statua del buon pastore che porta sulle spalle la pecora. Questa raffigurazione dice la sollecitudine del Signore nei nostri confronti.
Il pastore cammina davanti alle pecore … Davanti e non dietro! È lui che indica la via per raggiungere il pascolo al quale le pecore possono soddisfare la loro fame. Occorre allora seguire questo pastore che è Gesù, ascoltare la sua voce e lasciarci condurre se noi vogliamo sfamare la nostra fame d’amore, di verità, di vita, di felicità, di giustizia, di pace! Ancora oggi la sua voce risuona, anche se tante vorrebbero che fosse zittita e continua a chiamare l’uomo a seguirlo. Purtroppo sembra che tanti, anche battezzati non la riconoscano, e quindi non lo seguano e non si lascino condurre, ammaliati da falsi pastori, mercenari.
Questo pastore non si limita solo a guidare, a condurre, a chiamare ma: “È il pastore che arriva a dare la vita per le sue pecore”, superando così qualsiasi altro modello di pastore. Il rapporto che si instaura quindi fra il pastore e le pecore, fra noi e il Signore non è un rapporto di passività, ma di una corrispondenza e di dialogo.
Al capitolo 15 del vangelo di Giovanni Gesù dice: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi.” Il nostro rapporto con Gesù non è un rapporto di sudditanza ma siamo chiamati a vivere un rapporto di vera, grande, unica amicizia.
L’immagine della porta
Gesù, richiamando questa immagine, dice: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo.” In questo periodo di Pasqua non si può non pensare alla grande porta che ci ha aperto Gesù con la sua risurrezione. La sua Risurrezione ci ha spalancato una porta che conduce su un orizzonte luminoso, su quei pascoli che hanno come dono la vita senza fine: la vita eterna, che non è legata alla precarietà e alla fragilità del tempo e delle mode. È una porta esigente perché passa attraverso la salita che conduce al Calvario ma che spalanca davanti a noi una realtà luminosa e che noi tutti desideriamo: l’alba di un nuovo giorno che non conoscerà mai più la notte, lo smarrimento, la solitudine, la morte.
Questo ci deve confortare in un tempo in cui tanti hanno varcato la porta della morte, ma che, appunto, è solo una porta spalancata su un futuro radioso dove non vi sarà, né lacrime, né dolore, né turbamento alcuno guidati da Colui che ci ha preceduto.
Vorrei concludere questa meditazione con quanto ho ritrovato in un vecchio commento alla liturgia di questa domenica sulla dimensione spirituale affettiva della vita cristiana, che sostiene tanti che hanno una fede semplice, ma carica di amore e di umanità.
“C’è una dimensione della vita cristiana che spesso lasciamo in ombra: la dimensione spirituale-affettiva. Spesso viene liquidata come “devozione” in contrapposizione a una fede dotta. Ma a volte inaridiamo perché non ci sentiamo coinvolti globalmente (testa e cuore) nell’esperienza della sequela. L’eccesso di razionalismo rischia di far perdere il richiamo interiore, affettivo, interiore ma reale di una voce che attrae: la voce di Cristo che infiamma e avvince. Come non ricordare i due discepoli di Emmaus di domenica scorsa: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le scritture?” (Lc 24,32).
La fede pasquale ci fa sentire casa con Cristo. È il frutto della Pasqua: la riconciliazione. Riconciliazione con lui non siamo estranei, siamo pecore amate e curate del suo gregge” (D. Piazzi- Servizio della Parola 1999)
Deo gratias, qydiacdon