ll magistrato Alessandra Vella, Gip di Agrigento, non ha convalidato l’arresto di Carola Rackete, partendo dall’unico presupposto che la Tunisia non abbia porti sicuri e che il primo approdo sicuro fosse Lampedusa. Evidentemente non deve aver verificato bene, perché la Tunisia rispetta tutti i requisiti, vi operano sia l’Oim che l’Unhcr e i salvataggi sono numerosi.
Il magistrato Alessandra Vella non ha convalidato l’arresto di Carola Rackete, il comandante della Sea Watch, per insussistenza del reato di cui è accusata: atti di resistenza e di violenza nei confronti di una motonave della Guardia di Finanza. Il fatto contestato – si legge nell’ordinanza – “non può essere atomisticamente esaminato, ma deve essere vagliato unitamente ed alla luce di ciò che lo precede”: ovvero, il soccorso prestato a dei naufraghi che comporta l’obbligo di sbarcarli nel porto sicuro più vicino al luogo di soccorso.
“Il descritto segmento finale della condotta dell’indagata” scrive il magistrato per spiegare la non convalidazione dell’arresto “costituisce il prescritto esito dell’adempimento del dovere di soccorso il quale – si badi bene – non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino al più volte citato porto sicuro”. Siccome il porto sicuro era Lampedusa, l’indagata nel portarci a tutti i costi i naufraghi ha quindi adempiuto al suo dovere e questo la esime dalla pena.
Ma a decidere che Lampedusa fosse il porto sicuro più vicino è stata l’indagata. Invece, secondo quanto riporta l’ordinanza, il 12 giugno, poche ore dopo il trasferimento dei naufraghi a bordo, la guardia costiera libica, uno dei centri di coordinamento consultati, ha detto alla Sea Watch di andare a Tripoli. Ma Carola Rackete ha rifiutato ritenendolo un porto non sicuro. Ha rifiutato anche di andare a Malta, perché più lontana e perché Malta “non ha accettato le previsioni che derivano dalle modifiche introdotte nel 2004 alla SAR, la Convenzione internazionale di Amburgo sulla ricerca ed il salvataggio marittimo del 1979. Infine ha escluso di fare rotta sulla vicina Tunisia perché “in Tunisia non ci sono porti sicuri”.
Carola Rackete ha dichiarato di aver appreso che i porti tunisini non sono sicuri da “informazioni di Amnesty International” e di sapere che un mercantile stava aspettando da 14 giorni davanti a un porto senza poter entrare. Con una decisione che si spera sia del tutto insolita, il magistrato Vella ha preso per vera l’affermazione dell’indagata che la Tunisia non è un paese sicuro, aggiungendo di suo che “la Tunisia non prevede una normativa a tutela dei rifugiati, quanto al diritto di asilo”.
Le persone tratte in salvo, spiega Vella, devono essere portate dove la loro sicurezza non è più in pericolo; dove le necessità primarie (cibo, alloggio e cure mediche) sono assicurate; e dove può essere organizzato il loro trasferimento verso una destinazione finale. Queste sono – dice l’ordinanza – “le previsioni della Convenzione di Amburgo e le linee guida adottate dal Comitato per la Sicurezza dell’Imo, l’Organizzazione marittima internazionale”.
Che, in base a questa normativa, davvero la Tunisia non sia un paese sicuro il magistrato deve averlo accettato senza verificare perché, se no, non avrebbe costruito l’impianto della sua ordinanza sull’unico fatto che il primo e unico porto sicuro in tutto il Mediterraneo sia Lampedusa.
Con la collaborazione del governo, in Tunisia opera l’Oim, Organizzazione internazionale per le migrazioni, i cui uffici a Tunisi coordinano anche le attività del personale che gestisce i campi allestiti per assistere gli emigranti riportati in Libia dalla guardia costiera o bloccati nel paese per qualche ragione. Perciò molti emigranti illegali soccorsi in mare vengono portati in Tunisia dove ricevono assistenza, cure mediche, ospitalità e l’opportunità di tornare nei rispettivi paesi di origine.
Tra il 10 e il 12 maggio, ad esempio, sono state salvate da alcuni naufragi e portate in Tunisia 85 persone partite dalla Libia. L’Oim in collaborazione con la Mezzaluna Rossa tunisina li ha presi in carico nei centri di Sfax e di Zarzis. “L’urgenza è stata innanzitutto garantire le cure mediche necessarie ai migranti e fornire loro soluzioni di alloggio temporaneo in condizioni dignitose – spiegava il 28 maggio Daghrir Rabi, capo della delegazione Oim di Sfax – 15 minori non accompagnati sono stati sistemati presso il Centro di Inquadramento e Orientamento Sociale di Sfax, grazie agli sforzi congiunti del Ministero degli Affari sociali tunisino. Nel contempo, le varie organizzazioni della società civile hanno potuto accogliere 13 giovani donne e minori a Tunisi. L’OIM, oltre ad assicurare le cure mediche del caso ha facilitato anche il contatto con le famiglie di origine, in collaborazione con il Comitato internazionale della Croce Rossa”. Il 24 maggio già un primo gruppo di 19 emigranti – un egiziano e 18 bengalesi – lasciava in aereo il paese, usufruendo del programma di ritorno volontario assistito dell’Oim, realizzato con contributi finanziari dell’Unione Europea.
Quanto al caso di cui ha parlato Carola Rackete, è vero che il rimorchiatore Maridive 601 ha atteso per giorni di sbarcare i 75 emigranti che aveva a bordo, anche loro soccorsi al largo della Libia, ma perché le autorità tunisine chiedevano l’eventuale disponibilità al rimpatrio volontario di quelli che non avrebbero chiesto asilo. L’autorizzazione allo sbarco è stata concessa il 18 giugno, con l’assicurazione da parte di Lorena Lando, capo missione dell’Oim, che l’Oim era pronta a dare assistenza umanitaria e medica a tutti gli emigranti e a fornire assistenza a chi vorrà rientrare nel paese di origine.
Gli emigranti che invece chiedono asilo vengono presi in carico dall’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Anche questa agenzia ha una sede importante a Tunisi, dalla quale organizza il lavoro dei propri dipendenti impegnati nei campi profughi libici.
Dunque sembra proprio che la Tunisia soddisfi le condizioni per definire sicuri i suoi porti. Che il paese “non preveda una normativa a tutela dei rifugiati, quanto al diritto di asilo” si legge nella prima pagina web che si apre digitando “Tunisia, rifugiati”. È una pagina dell’Unhcr pubblicata nel 2011 nel 60° anniversario della costituzione dell’organismo. Vi si legge che la Tunisia nel 1957 ha aderito alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, nel 1968 al Protocollo sui rifugiati del 1967, nel 1989 alla Convezione sui rifugiati dell’Organizzazione dell’Unità Africana (ora Unione Africana). Inoltre si dice che una legge del 1975 fa esplicito riferimento al principio di non respingimento dei richiedenti asilo e dei rifugiati.
Tuttavia nel 2011 il governo effettivamente non aveva ancora varato un sistema globale di asilo e per questo i rifugiati riconosciuti dall’Unhcr non ottenevano automaticamente i certificati di residenza. Alla lacuna si è però incominciato a porre rimedio nel 2014, anno in cui Onu e Unione Europea si sono impegnate a sviluppare nel paese un sistema di asilo complessivo.
Peraltro nel caso degli emigranti illegali diretti in Europa la questione dell’asilo è marginale dal momento che tra di loro i profughi rappresentano una piccola percentuale.
Anna Bono in LA NBQ