Tito Boeri perde il pelo ma non il vizio. Nonostante le critiche che ha ricevuto l’anno scorso, il presidente dell’Inps ribadisce che “gli immigrati ci pagheranno le pensioni”. Ma è vero? Secondo gli stessi dati dell’Inps, no. Gioca su un equivoco: il sistema previdenziale, semmai, ha bisogno di nuovi contribuenti. Cioè di nuovi occupati.
Tito Boeri perde il pelo ma non il vizio. Dopo essere stato pesantemente criticato, un anno fa, per aver detto che “gli immigrati ci pagheranno le pensioni” il presidente dell’Inps ha rilanciato quest’anno – nello sfavorevole clima del governo giallo-verde – la sua tesi. Una presa di posizione che, manco a dirlo, non è piaciuta al neo ministro dell’Interno Matteo Salvini che, sui social, ha commentato: “Presidente #Inps continua a fare politica, ignorando la voglia di lavorare di tantissimi italiani.
Vive su Marte?”. Forse un anticipo della sua prossima rimozione, probabilmente in favore di Alberto Brambilla, esperto previdenziale di lungo corso (è fondatore del centro studi Itinerari Previdenziali) e vicino alla Lega.
Ma davvero gli immigrati ci stanno già pagando o ci pagheranno, in prospettiva, le pensioni? Andiamo per ordine. Nel XVII rapporto annuale pubblicato qualche giorno fa dall’Inps si legge: “Le previsioni sulla spesa indicano che anche innalzando l’età del ritiro, ipotizzando aumenti del tasso di attività delle donne, che oggi tendono ad avere tassi di partecipazione al mercato del lavoro più bassi, incrementi plausibili e non scontati della produttività, per mantenere il rapporto tra chi percepisce una pensione e chi lavora su livelli sostenibili è cruciale il numero di immigrati che lavoreranno nel nostro Paese”.
Una frase, tradotta dal burocratese, suona più o meno così: siccome gli italiani fanno meno figli (questo è vero) è necessario l’arrivo di nuove “risorse” per permettere di mantenere in equilibrio una piramide che, col passare del tempo, si è trasformata sempre più in una colonna, con un numero di pensionati (circa 16 milioni per una media di circa 1.500 euro lordi) troppo alto rispetto al numero complessivo di lavoratori (circa 25 milioni quelli gestiti dall’Inps).
A pagina 13 del rapporto l’Inps rilancia: “Il quadro complessivo è quello di una popolazione che nella fascia di età 20-64 anni si sta riducendo, nonostante l’apporto degli immigrati, ed è nel contempo (anche per questo?) sempre più presente attivamente nel mercato del lavoro, per l’effetto congiunto di varie determinanti di lunga durata, sia sociali (atomizzazione della famiglia, carriere femminili che si allungano) che normative (mutamenti nella regolazione del passaggio dal lavoro alla pensione)”.
Le due frasi – apparentemente ineccepibili – nascondono un vizio di fondo. A pagare le pensioni sono infatti i semplici abitanti di un territorio o piuttosto i suoi lavoratori (in regola)? Quando l’Inps, nel suo rapporto, parla di un “lungo ciclo di ripresa occupazionale” fa riferimento ad un aumento, nel quadriennio 2013/2017 del 3,5% (media fra un aumento del 6% dei lavoratori dipendenti e un calo del 3,7% degli autonomi), seguita a un calo del 4,8% rispetto al quadriennio precedente che non ci consente ancora di arrivare ai livelli pre-crisi. Non solo. Sempre nel proprio rapporto l’Inps ammette che “a fronte del recupero occupazionale, la disoccupazione tra il 2014 e il 2018 si è ridotta solo di poche centinaia di migliaia di unità. Nel quinquennio 2008-2013 i disoccupati erano raddoppiati, con un incremento più che proporzionale rispetto alle perdite occupazionali, passando da 1,6 a 3,2 milioni; negli anni successivi sono faticosamente scesi poco sotto i 3 milioni, nonostante il contemporaneo incremento di occupati e posti di lavoro. Ciò è dovuto al netto e continuo incremento del tasso di attività della popolazione: nella fascia di età 20-64 anni è giunto a superare il 70% a fine 2017”. In pratica si lavora di più (+4,4% di ore lavorate nell’ultimo quadriennio) e più a lungo, ma non ci sono più persone che lavorano. Tanto che il “tasso di disoccupazione” che “dall’iniziale 6% si era spinto oltre il 12% all’inizio del 2014, si posiziona attualmente sull’11%”.
Viene da chiedersi, in una situazione del genere, quale possa essere il contributo apportato da altre persone alla salute economica e previdenziale del paese. L’emigrazione dall’Africa viene spesso paragonata a quella italiana dell’Ottocento e della prima metà del Novecento verso gli Stati Uniti. Nulla di più improprio se consideriamo che, ai tempi, il paese di destinazione aveva un gran bisogno di forza lavoro. Una necessità che, nel tempo, è calata non solo per la crisi economica: chi scrive è tutt’altro che contrario al progresso tecnico e tecnologico ma è innegabile che le macchine abbiano sostituito – e in prospettiva sostituiranno sempre più – il lavoro. A farne le spese maggiori sono i lavoratori meno qualificati come quelli che, per dirla con Salvini, “arrivano coi barconi”. Nessuno nega che fra loro si possa nascondere il prossimo Steve Jobs (di tanto in tanto ne viene premiato qualcuno come “imprenditore dell’anno”) ma non è razzismo dire che, in gran parte, si tratta di potenziali lavoratori con pochissime qualifiche.
Tanto più che, come avevamo già avuto modo di ricordare, lavori meno qualificati con basso reddito comportano la riduzione (fino all’azzeramento) dei contributi previdenziali Inps e, in presenza di prole, l’erogazione degli assegni familiari, sempre pagati dall’istituto previdenziale (anche l’assegno di maternità è pagato dall’Inps). In questi casi – e vale per la maggior parte degli immigrati regolari che lavorano in Italia – il saldo contributivo reale è passivo per le casse dell’Inps. Per non parlare dei casi di chi lavora in nero che, di fatto, non versa alcun contributo ma usufruisce dei servizi (sanità, istruzione etc.).
Insomma l’utopia di Boeri rischia, nei fatti, di rivelarsi una distopia. Se in futuro avremo più immigrati ciò dovrebbe contribuire, allo stato attuale, a invertire il calo demografico del nostro paese: tuttavia non vi è alcun elemento per supporre che possa salvare l’economia o le pensioni. Potremmo benissimo avere tanti giovani in più, ma tutti disoccupati.
Matteo Borghi in La NBQ