Traduzione di una riflessione sull’autorità del Papa nella Chiesa scritta dal cardinale Gerhard Müller e pubblicata su First Things il 16 gennaio 2018.
Come sono correlati tra loro il Magistero del papa e la Tradizione della Chiesa? Quando interpreta le parole di Gesù, il papa deve essere in continuità con la Tradizione ed il Magistero precedente, incluso quello dei papi più recenti? O è piuttosto la Tradizione della Chiesa a dover essere reinterpretata alla luce delle nuove parole del papa? Che cosa accade se ci sono delle contraddizioni?
Per rispondere a queste domande, sembra pertinente iniziare con una importante Lettera Apostolica che papa Pio IX inviò all’episcopato tedesco, il 4 marzo 1875. Nella sua lettera, il Papa precisava che i vescovi tedeschi avevano interpretato il dogma dell’infallibilità pontificia e del primato petrino in perfetta armonia con le definizioni del Concilio Vaticano I. Ad aver provocato la lettera del Papa fu la circolare del Cancelliere tedesco Bismarck, che fraintese gravemente questo dogma per giustificare la feroce persecuzione dei cattolici tedeschi nella cosiddetta Kulturkampf o “battaglia culturale”. Secondo Pio IX, nella loro risposta alla provocazione di Bismarck, i vescovi tedeschi avevano chiaramente mostrato che «non c’è assolutamente nulla nelle definizioni prese di mira che sia nuovo o che cambi qualcosa circa le nostre relazioni con i governi civili o che possano offrire un pretesto per proseguire nella persecuzione della Chiesa».
Per poter valutare gli eventi, bisogna certamente tener presenti i presupposti culturali a partire dai quali Bismarck e i suoi liberali “guerrieri culturali” hanno agito. Sebbene essi avessero in gran parte abbandonato il contenuto religioso della Riforma Protestante, che aveva segnato il loro paese, avevano invece ampiamente mantenuto i relativi pregiudizi contro la Chiesa cattolica. Secondo loro, l’ufficio magisteriale esercitato dal papa e dai concili della Chiesa pretendeva un’autorità maggiore di quella della stessa Parola di Dio. Non solo il magistero della Chiesa finiva per intralciare il rapporto immediato del fedele con Dio, ma si ergeva anche come elemento estraneo tra i cittadini e lo stato – uno stato, certamente, che nel caso della Prussia della fine del XIX secolo si attribuiva un’autorità assoluta, distaccata anche dalla legge morale naturale.
Bismarck e i suoi sostenitori erano convinti che l’autorità del papa si estendesse fino a poter inventare arbitrariamente ed anche imporre dottrine e pratiche alla Chiesa universale, inclusi i cittadini cattolici tedeschi, che allora sarebbero stati vincolati ad aderire ad esse sotto la minaccia della scomunica e della perdita della vita eterna. Contro questa totale caricatura della pienezza del potere del papa, i vescovi tedeschi sottolinearono che «in tutti gli aspetti essenziali la costituzione della Chiesa si basa su ordini divini, e pertanto non è soggetta ad arbitrarietà umane». Quanto ad essi, «l’opinione secondo cui il papa è ‘un sovrano assoluto a motivo della sua infallibilità’ si basa su una comprensione totalmente falsa del dogma dell’infallibilità pontificia». Infatti, il Magistero del papa «è limitato ai contenuti della Sacra Scrittura e della tradizione ed anche ai dogmi precedentemente definiti dall’autorità magisteriale della Chiesa».
Il fatto è che la funzione di insegnare detenuta dal Papa e dai vescovi in comunione con lui è un ministero a servizio della Parola di Dio, una Parola che è divenuta carne in Gesù Cristo. Cristo è perciò l’unico Maestro (cf. Mt. 23, 10), che ci insegna le “parole di vita eterna” (Gv. 6, 68). In relazione a lui, Pietro, gli apostoli e tutti i battezzati sono fratelli e sorelle dell’unico Padre celeste.
Senza pregiudicare il fatto che tutti i credenti sono fratelli e sorelle, Gesù ha scelto alcuni tra i suoi molti discepoli per essere i suoi apostoli, dando loro l’autorità di insegnare e governare. Egli ha affidato loro “il messaggio di riconciliazione”, così che essi agiscano realmente nella persona di Cristo per la salvezza del mondo (cf. 2Cor. 5, 19f). Il Signore risorto, al quale è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra, manda i suoi apostoli in tutto il mondo per fare discepoli da tutte le nazioni e battezzarli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Incaricando i suoi apostoli, Gesù incarica anche i loro successori, cioè i vescovi, insieme con il successore di Pietro, il papa, come loro capo. Il mandato che Cristo conferisce loro è di “insegnar loro ad osservare tutto quello che vi ho comandato” (Mt. 28, 20). In questo modo egli chiarisce che il contenuto dell’insegnamento degli apostoli – il criterio di verità di quanto essi diranno – è il suo stesso insegnamento. La certezza della fede cristiana riposa in ultimo sul fatto che la parola umana degli apostoli e dei vescovi è la divina Parola di salvezza, non prodotta ma piuttosto testimoniata mediante una mediazione umana (cf. 1Ts. 2, 13).
Fin dai tempi di Ireneo di Lione nel secondo secolo, è andata saldamente consolidandosi una terminologia secondo la quale il contenuto della rivelazione si trova nella Sacra Scrittura e nella Tradizione Apostolica. Questa rivelazione è autorevolmente proclamata dal Magistero della Chiesa costituito dal papa e dai vescovi in comunione con lui. Contrariamente al principio protestante del sola scriptura (solo la Scrittura), il Concilio di Trento «giudicare il vero senso e la vera interpretazione della Sacra Scrittura – e… nessuno osi interpretare la Scrittura in un modo contrario al consenso unanime dei Padri».
Il Concilio Vaticano II riprende questa modalità fondamentale di interpretare la fede cattolica e, a partire da essa, conclude: «Il magistero però non è superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio» (Dei Verbum, 10).
C’è accordo tra tutti i cristiani nel ritenere che la Sacra Scrittura sia Parola di Dio. Ma dal momento che questa Parola viene trasmessa con un linguaggio umano, essa non ha quell’evidenza (quoad se – in se stessa) che i protestanti vogliono attribuirle. C’è invece bisogno di un’interpretazione umana da parte dei maestri della fede, la cui autorità proviene dallo Spirito Santo. Riguardo a coloro che ascoltano la Parola di Dio, questi maestri rappresentano la stessa autorità di Dio, avvalendosi di parole e di decisioni umane (quoad nos – per noi). Il compito dell’insegnamento autorevole e del governo non può essere lasciato unicamente al singolo fedele che nella propria coscienza giunge ad accettare una certa verità. Dopotutto la rivelazione è stata affidata alla Chiesa nel suo insieme. Quindi, il Magistero è una parte essenziale della missione della Chiesa. Solo con l’aiuto del magistero vivente del papa e dei vescovi la Parola di Dio può essere trasmessa nella sua integrità ai fedeli e a tutte le persone di ogni tempo e luogo.
Nel nostro credo noi professiamo la nostra fede usando parole umane. Queste parole sono soggette ad un certo cambiamento, per quanto concerne la modalità espressiva. Ciò è possibile e a volte è necessario, dal momento che, come afferma chiaramente S. Tommaso, «l’atto del credente non si ferma all’enunciato, ma va alla realtà» (S. Th. II-II, q. 1, a. 2, ad. 2). Dato che l’insegnamento degli apostoli – e anche l’insegnamento della Chiesa – è la Parola di Dio trasmessa mediante le parole di esseri umani, la Parola di Dio si delinea e si sviluppa nella consapevolezza della Chiesa della propria fede, abbastanza analogamente al modo in cui ciascuno dei fedeli è soggetto ad uno sviluppo spirituale e storico sotto la guida dello Spirito Santo. Senza dubbio, la missione dello Spirito Santo non consiste nell’inventare nuove dottrine, ma nel rendere presente nella Chiesa la pienezza della rivelazione di Gesù Cristo (cf. Gv. 16, 13).
Dal momento che il papa, in quanto capo del collegio dei vescovi, è il principio dell’unità della Chiesa nella verità, egli ha la missione sia di custodire la verità della rivelazione che di pronunciare nuove formulazioni concettuali del credo (il “simbolo”), laddove sia necessario. Facendo ciò, egli non può aggiungere nulla alla rivelazione dataci nella Scrittura e nella Tradizione, e neppure può cambiare il contenuto di precedenti definizioni dogmatiche. Ma al fine di proteggere l’unità della Chiesa nella fede, a certe condizioni egli ha il diritto e il dovere di dare una nuova formulazione al credo (nova editio symboli). Così spiega S. Tommaso: «nell’insegnamento di Cristo e degli Apostoli le verità di fede sono spiegate a sufficienza. Siccome però gli uomini perversi, secondo l’espressione di S. Pietro [2Pt. 3, 16], ‘travisano per loro propria rovina’ l’insegnamento apostolico e le altre Scritture, è necessario che nel corso del tempo ci sia un’esposizione della fede contro gli errori che insorgono» (S. Th. II-II, q. 1, a. 10, ad. 1, sottolineatura aggiunta).
Per questo compito, il magistero si basa sulla comprensione soprannaturaledella fede (sensus fidei), data dallo Spirito Santo a tutto il Popolo di Dio, sotto la guida dei vescovi (cf. Lumen Gentium, 12). Ma conta anche sui teologi. Senza il lavoro teologico preparatorio di Sant’Atanasio e dei Padri Cappadoci, non ci sarebbe stato il credo niceno né la sua difesa e precisazione nei concili successivi. Parimenti, i decreti del Concilio di Trento non sarebbero stati possibili senza il lavoro preparatorio dei teologi più dotti del tempo. È vero che per il Concilio Vaticano II la fedele e completa trasmissione storica della rivelazione si basa sul carisma dell’infallibilità, che è proprio del papa e dei concili ecumenici. Nello stesso tempo però, il Vaticano II non manca di aggiungere: «Perché poi sia debitamente indagata ed enunziata in modo adatto, il romano Pontefice e i vescovi nella coscienza del loro ufficio e della gravità della cosa, prestano la loro vigile opera usando i mezzi convenienti; però non ricevono alcuna nuova rivelazione pubblica come appartenente al deposito divino della fede» (Lumen Gentium, 25).
Certamente, come cattolici, non possiamo ignorare lo sviluppo dottrinale della Chiesa per occuparci solamente della presunta pura dottrina della Scrittura. La parabola del figlio prodigo, per esempio, non fornisce un’istruzione catechetica sul sacramento della penitenza nella sua materia (pentimento, confessione, soddisfazione) e forma (assoluzione da parte del sacerdote). Se si dovesse guardare alla sola Scrittura, si dovrebbe allora concludere che, dal momento che il figlio prodigo in realtà non va a confessare i suoi peccati, neppure noi siamo tenuti a farlo. In ogni caso, opporre in questo modo la Scrittura alla Chiesa significherebbe ignorare completamente le parole di Cristo, che affida agli apostoli – con Pietro come loro capo – il compito di custodire fedelmente l’intero deposito della fede.
Cristo «prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione» (Lumen Gentium, 18). Ora, la pienezza dell’autorità apostolica non comporta un’illimitata pienezza di potestà secondo l’accezione secolare. Al contrario, questo potere è strettamente circoscritto dalla sua finalità: è a servizio della difesa dell’unità della Chiesa nella sua fede nel Figlio di Dio venuto nella “pienezza dei tempi” (Gal. 4, 4-6). L’autorità del papa è legata molto strettamente alla rivelazione; infatti essa deriva dalla rivelazione. È solo per il potere di Dio che Pietro è in grado di custodire l’intera Chiesa nella fedeltà a Cristo, anche quando Satana la scuote e la vaglia, così che il grano venga separato dalla pula. Così dice Gesù: “ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede” (Lc. 22, 32). Nel suo magistero supremo, il papa unisce tutta la Chiesa e tutti i vescovi nella stessa confessione: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt. 16, 16). Ed è precisamente in questa confessione che egli è la roccia sulla quale il Signore Gesù continua ad edificare la sua Chiesa fino alla fine del mondo. È chiaro, allora, che le parole del papa sono a servizio dell’intera Tradizione della Chiesa e non il contrario.
Quanto è stato detto sopra si riferisce all’insegnamento della Chiesa, ma anche all’amministrazione dei mezzi della grazia nei sacramenti. Nel suo Decreto sulla Santa Comunione, il Concilio di Trento dichiara che la Chiesa ha il potere di stabilire o di modificare i riti esterni dei sacramenti. Nello stesso tempo, il Concilio nega che la Chiesa abbia il diritto o la possibilità di interferire con l’essenza dei sacramenti, insistendo che sia «fatta salva la loro sostanza». Quando il Concilio di Trento definisce che ci sono tre atti del penitente che fanno parte del sacramento della penitenza (pentimento con la risoluzione di non peccare nuovamente, confessione e soddisfazione), allora anche i papi e i vescovi dei secoli successivi sono vincolati da questa dichiarazione. Essi non sono liberi di dare l’assoluzione sacramentale per i peccati, o di autorizzare i propri sacerdoti a darla, quando i penitenti non mostrano realmente segni di pentimento o quando essi esplicitamente non vogliono prendere la risoluzione di non peccare più. Nessun essere umano può annullare l’intima contraddizione tra l’effetto del sacramento – ossia, la nuova comunione di vita con Cristo nella fede, speranza e carità – e l’inadeguata disposizione del penitente. Nemmeno il papa o un concilio possono farlo, perché non ne hanno l’autorità e neppure potranno mai ricevere una tale autorità, perché Dio non chiede mai agli uomini di fare qualcosa che sia contraddittorio in se stesso e contrario a Dio stesso.
È necessario ricordare che le affermazioni dottrinali possiedono diversi gradi di autorità. Essi richiedono differenti gradi di consenso, come espresso dalle cosiddette “note teologiche”. L’accettazione di un insegnamento con “fede divina e cattolica” è richiesta solamente per le definizioni dogmatiche. È chiaro anche che il papa e i vescovi non devono mai chiedere ad alcuno di agire o insegnare contro la legge morale naturale. L’obbedienza dei fedeli verso i loro superiori ecclesiastici non è perciò un obbedienza assoluta e il superiore non può richiedere un’obbedienza assoluta, perché sia il superiore che coloro che sono affidati alla sua autorità sono fratelli e sorelle, figli dello stesso Padre e sono discepoli dello stesso Maestro. Pertanto, è più arduo insegnare che imparare, perché l’insegnamento è associato ad una più grande responsabilità di fronte a Dio. L’affermazione «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (Atti 5, 29) ha il suo valore anche e soprattutto nella Chiesa. Contro il principio di obbedienza assoluta vigente nello stato militare prussiano, i vescovi tedeschi ribadivano di fronte a Bismarck: «Non è certamente la Chiesa cattolica ad aver fatto proprio il principio immorale e dispotico che il comando di un superiore svincola incondizionatamente da ogni responsabilità personale».
Quando delle opinioni private o dei limiti spirituali e morali si inseriscono nell’esercizio dell’autorità ecclesiastica, allora diventano necessarie critiche sobrie ed oggettive come anche la correzione personale, specialmente da parte dei fratelli nell’episcopato. Tommaso d’Aquino non può essere di certo sospettato di relativizzare il primato pietrino e la virtù d’obbedienza. Particolarmente illuminante è il modo in cui egli interpreta l’incidente avvenuto ad Antiochia, culminato con la pubblica correzione di Pietro da parte di Paolo (Gal. 2, 11). Secondo l’Aquinate, l’episodio ci insegna che a certe condizioni un apostolo può avere il diritto ed anche il dovere di correggere un altro apostolo in modo fraterno, e che anche un sottoposto può avere il diritto e il dovere di criticare il superiore (cf. Commento sulla lettera ai Galati, c. II, l. 3). Questo non significa che si possa ridurre il magistero ad un’opinione privata, così da essere dispensati dal potere vincolante dell’insegnamento autentico e definitivo della Chiesa (cf. Lumen Gentium, 37). Significa solamente che si deve comprendere bene il senso preciso dell’autorità nella Chiesa in generale e il ruolo del ministero petrino in particolare. Ciò è particolarmente vero quando il conflitto non nasce tra l’insegnamento del papa e la sua idea personale, ma tra l’insegnamento del papa e l’insegnamento dei papi precedenti, che è in accordo con l’ininterrotta tradizione della Chiesa.
Come Papa Benedetto XVI ha spiegato durante la Messa in occasione del suo insediamento sulla Cattedra di Vescovo di Roma, il 7 maggio 2005, «il potere conferito da Cristo a Pietro e ai suoi successori è, in senso assoluto, un mandato per servire. La potestà di insegnare, nella Chiesa, comporta un impegno a servizio dell’obbedienza alla fede. Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia dell’obbedienza verso Cristo e verso la Sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte ad ogni opportunismo».
(Traduzione di Luisella Scrosati)
Gerhard L. Müller
Fonte La NBQ