A un anno esatto dalla pubblicazione dei Dubia sull’esortazione apostolica “Amoris Laetitia”, proponiamo un’intervista a uno dei quattro cardinali firmatari, Raymond L. Burke, per fare il punto su quanto accaduto da allora. Così come i “Dubia” questa intervista esce contemporaneamente su La Nuova Bussola Quotidiana, Settimo Cielo (il blog di Sandro Magister) e il National Catholic Register.
Eminenza, è passato un anno da quando lei, il cardinale Walter Brandmüller e i due cardinali recentemente scomparsi, Carlo Caffarra e Joachim Meisner, avete pubblicato i “dubia”. A che punto siamo?
A un anno dalla pubblicazione dei “dubia” su “Amoris laetitia”, che non hanno ottenuto alcuna risposta dal Santo Padre, constatiamo che la confusione sull’interpretazione dell’esortazione apostolica è sempre maggiore. Per questo motivo si fa ancora più urgente la nostra preoccupazione per la situazione della Chiesa e per la sua missione nel mondo. Io, naturalmente, continuo ad essere in regolare contatto con il cardinale Walter Brandmüller per quanto riguarda questi gravissimi problemi. E tutti e due rimaniamo in profonda unione con i due cardinali defunti Joachim Meisner e Carlo Caffarra, che ci hanno lasciati nel corso degli ultimi mesi. Così, ancora una volta faccio presente la gravità della situazione, che continua a peggiorare.
Si è molto parlato dei pericoli della natura ambigua del capitolo 8 di “Amoris laetitia”, sottolineando che è aperto a molte interpretazioni. Perché fare chiarezza è così importante?
La chiarezza nell’insegnamento non implica alcuna rigidità che impedisca al popolo di camminare sulla via del Vangelo, ma, al contrario, la chiarezza dona la luce necessaria ad accompagnare le famiglie sulla via della sequela di Cristo. È l’oscurità che ci impedisce di vedere il cammino e ostacola l’azione evangelizzatrice della Chiesa, come dice Gesù: “Arriva la notte, in cui nessuno può lavorare” (Gv 9, 4).
Può spiegare di più la situazione attuale alla luce dei “dubia”?
La presente situazione, lungi dal diminuire l’importanza dei “dubia”, li rende ancora più pressanti. Non si tratta affatto, come qualcuno ha detto, di una “ignorantia affectata”, che solleva dubbi solo perché non vuole accettare un determinato insegnamento. Piuttosto, la preoccupazione è stata ed è di determinare con precisione ciò che il papa ha voluto insegnare come successore di Pietro. Le domande nascono, quindi, proprio dal riconoscimento dell’ufficio petrino che papa Francesco ha ricevuto dal Signore al fine di confermare i suoi fratelli nella fede. Il magistero è un dono di Dio alla Chiesa per fare chiarezza sui punti che riguardano il deposito della fede. Affermazioni alle quali mancasse questa chiarezza non potrebbero essere, per loro stessa natura, espressioni qualificate del magistero.
Perché è così pericoloso, secondo lei, che ci siano interpretazioni diverse di “Amoris laetitia”, in particolare sull’approccio pastorale di chi vive in unioni irregolari e specificamente sui divorziati risposati civilmente che non vivono in continenza e ricevono la santa comunione?
È palese che alcune indicazioni di “Amoris laetitia” riguardanti aspetti essenziali della fede e della pratica della vita cristiana hanno ricevuto varie interpretazioni, che sono divergenti e a volte incompatibili tra loro. Questo fatto incontestabile conferma che quelle indicazioni sono ambivalenti e permettono un varietà di letture, molte delle quali sono in contrasto con la dottrina cattolica. Perciò le questioni sollevate da noi cardinali riguardano che cosa abbia insegnato esattamente il Santo Padre e come il suo insegnamento si armonizzi con il deposito della fede, dato che il magistero “non è superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio” (Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica “Dei Verbum”, n. 10).
Non ha chiarito il papa su quale posizione egli si pone, tramite la sua lettera ai vescovi argentini, nella quale egli ha affermato che “non vi è altra interpretazione” se non le linee guida che questi vescovi hanno indicato, linee guida che hanno lasciata aperta per delle coppie non sposate ma in intimità sessuale la possibilità di ricevere la santa eucaristia?
Al contrario di quanto alcuni hanno detto, non possiamo considerare una risposta adeguata alle domande da noi poste la lettera del papa ai vescovi della regione di Buenos Aires, scritta poco prima che egli ricevesse i “dubia” e contenente commenti alle linee guida pastorali dei vescovi. Da una parte, queste linee guida possono essere interpretate in modi differenti; dall’altra, non è chiaro che questa lettera sia un testo magisteriale, nel quale il papa abbia voluto parlare alla Chiesa universale come successore di Pietro. Già il fatto che si sia conosciuta quella lettera perché fatta filtrare alla stampa – e solo dopo sia stata resa nota dalla Santa Sede – solleva un ragionevole dubbio sull’intenzione del Santo Padre di rivolgerla alla Chiesa universale. Inoltre, risulterebbe un po’ strano – e contrario al desiderio esplicitamente formulato da papa Francesco di lasciare la concreta applicazione di “Amoris laetitia” ai vescovi di ogni paese (cfr. AL 3) – che ora egli imponga alla Chiesa universale quelle che sono soltanto le concrete direttive di una particolare regione. E non dovrebbero allora essere considerate tutte invalide le differenti disposizioni promulgate da vari vescovi nelle rispettive diocesi, da Philadelphia a Malta? Un insegnamento che non è sufficientemente determinato, tanto nella sua autorità quanto nel suo contenuto effettivo, non può mettere in dubbio la chiarezza del costante insegnamento della Chiesa, che, in ogni caso, rimane sempre normativo.
La preoccupa anche il permesso dato da alcune conferenze episcopali a dei divorziati risposati che vivono “more uxorio” (cioè avendo relazioni sessuali) di ricevere la santa comunione senza un fermo proposito di cambiar vita, contraddicendo così l’insegnamento pontificio precedente, in particolare l’esortazione apostolica di san Giovanni Paolo II “Familiaris consortio”?
Sì, i “dubia” e le domande restano aperti. Quelli che sostengono che la disciplina insegnata da “Familiaris consortio” 84 è cambiata si contraddicono l’un l’altro quando arrivano a spiegarne le ragioni e le conseguenze. Alcuni arrivano fino al punto di sostenere che i divorziati in nuova unione che continuano a vivere “more uxorio”, non si troverebbero in uno stato oggettivo di peccato mortale (citando in appoggio AL 303); mentre altri negano questa interpretazione (citando in appoggio AL 305), ma lasciano completamente al giudizio della coscienza di determinare i criteri di accesso ai sacramenti. Sembra che l’obiettivo di tanti interpreti sia di arrivare, in un modo o nell’altro, a un cambiamento di disciplina, mentre le ragioni che essi adducono a questo fine non hanno importanza. Né essi mostrano alcuna preoccupazione su quanto mettono in pericolo materie essenziali del deposito della fede.
Qual è l’effetto tangibile che questa miscela di interpretazioni ha avuto?
Questa confusione ermeneutica ha già prodotto un triste risultato. Infatti, l’ambiguità riguardo a un punto concreto della cura pastorale della famiglia ha portato alcuni a proporre un cambiamento di paradigma dell’intera pratica morale della Chiesa, le cui fondamenta sono state autoritativamente insegnate da san Giovanni Paolo II nella sua enciclica “Veritatis splendor “.
In effetti è stato messo in moto un processo che è eversivo di parti essenziali della tradizione. Per quanto riguarda la morale cristiana, alcuni sostengono che le norme morali assolute devono essere relativizzate e che una coscienza soggettiva e autoreferenziale debba avere un primato – in definitiva equivoco – in materie che toccano la morale. Quello che è in gioco, dunque, non è in alcun modo secondario rispetto al “kerygma”, cioè al messaggio fondamentale del Vangelo. Stiamo parlando della possibilità o no che l’incontro con Cristo, per grazia di Dio, dia forma al cammino della vita cristiana, in modo che possa essere in armonia con il disegno sapiente del Creatore. Per comprendere la portata di tali cambiamenti, basta pensare a cosa succederebbe se questo ragionamento fosse applicato ad altri casi, come quello di un medico che effettua aborti, di un politico che fa parte di un reticolo di corruzione, di una persona sofferente che decide di fare una richiesta di suicidio assistito…
Alcuni hanno detto che l’effetto più rovinoso di tutto ciò è che configura un attacco ai sacramenti, oltre che all’insegnamento morale della Chiesa. È così?
Al di là del dibattito morale, il senso della pratica sacramentale va degradandosi sempre di più nella Chiesa, specialmente quando si tratta dei sacramenti della penitenza e dell’eucaristia. Il criterio decisivo per l’ammissione ai sacramenti è sempre stato la coerenza del modo di vivere di una persona con gli insegnamenti di Gesù. Se invece il criterio decisivo diventasse l’assenza della colpevolezza soggettiva della persona – come hanno suggerito alcuni interpreti di “Amoris laetitia” – ciò non cambierebbe la natura stessa dei sacramenti? Infatti, i sacramenti non sono incontri privati con Dio, né sono mezzi di integrazione sociale in una comunità. Piuttosto, sono segni visibili ed efficaci della nostra incorporazione in Cristo e nella sua Chiesa, in cui e per mezzo di cui la Chiesa pubblicamente professa e mette in pratica la sua fede. Quindi trasformare la diminuita colpevolezza soggettiva o la mancanza di colpevolezza di una persona nel criterio decisivo per l’ammissione ai sacramenti metterebbe a rischio la stessa “regula fidei”, la regola della fede, che i sacramenti proclamano e attuano non solo con parole ma anche con gesti visibili. Come potrebbe la Chiesa continuare ad essere sacramento universale di salvezza se il significato dei sacramenti fosse svuotato del suo contenuto?
Nonostante il fatto che lei e tanti altri, tra cui oltre 250 accademici e preti che hanno pubblicato una “correzione filiale”, abbiate già espresso seri dubbi circa gli effetti di questi passaggi di “Amoris laetitia”, e poiché finora non avete ricevuto nessuna risposta da parte del Santo Padre, lei intende qui rivolgergli un ultimo appello?
Sì, per queste gravi ragioni, un anno dopo aver resi pubblici i “dubia”, mi rivolgo di nuovo al Santo Padre e a tutta la Chiesa, sottolineando quanto sia urgente che, nell’esercitare il ministero che ha ricevuto dal Signore, il papa confermi i suoi fratelli nella fede con una chiara manifestazione dell’insegnamento riguardante sia la morale cristiana che il significato della pratica sacramentale della Chiesa
Edward Pentin – La NBQ