30 ottobre 1999, Piazza san Pietro: decine di migliaia di studenti, insegnanti e genitori delle scuole cattoliche si ritrovano per una grande manifestazione. E al grido di “Li-ber-tà, li-ber-tà”, accompagnano le parole del Papa san Giovanni Paolo II che, a loro nome, chiede «con forza ai responsabili politici e istituzionali che sia rispettato concretamente il diritto delle famiglie e dei giovani ad una piena libertà di scelta educativa».
Diciotto anni, ma sembra passato un secolo. Non per la disparità tra scuole statali e scuole paritarie, che è sostanzialmente rimasta la stessa, ma perché oggi appare completamente mutato il clima culturale in casa cattolica. E alla battaglia per la libertà gradualmente si stanno sostituendo nuove istanze.
Ne sono un esempio le ultime edizioni del Meeting di Rimini, espressione del movimento di Comunione e Liberazione, dove ai temi della scuola è sempre dedicato un ampio spazio. Fece scalpore nel 2015 il titolo di un incontro (“Statale o paritaria, l’importante è che sia migliore”), una notevole virata rispetto al passato; nell’edizione appena conclusa ha invece scandalizzato molti un intervento del professor Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà e organizzatore degli incontri sulla scuola, teso a dipingere come ideologiche le battaglie del passato sulla libertà educativa. «Basta ideologie – ha tuonato Vittadini – è finito quel mondo. Adesso il mondo è il dialogo». E per esplicitare il concetto, ha anche aggiunto che nel dialogo è bene che si perda la certezza dell’identità e si cambi idea: «La scuola deve essere un cambiamento di teoria: alla fine dell’anno non si capisce più chi è il professore comunista, cattolico o agnostico; c’è stato un ripensamento, perché un uomo intelligente cambia idea e i ragazzi sono contenti».
Per capire lo sconcerto che hanno creato le affermazioni di Vittadini bisogna ricordare che negli ultimi decenni CL è stata l’anima delle battaglie per la libertà di educazione e centinaia sono state le scuole paritarie nate dal comune impegno di genitori e insegnanti del movimento. Già nel 1960, don Luigi Giussani, il fondatore di CL, nella difesa della scuola libera scriveva su “Vita e Pensiero” che una «educazione intensa e profonda» può essere offerta solo da una scuola «che proponga una definita visione delle cose come sviluppo della tradizione originale dell’allievo», ovvero una scuola «il più possibile in connessione con l’ambiente in cui il ragazzo è sorto». La preoccupazione educativa è al cuore dell’esperienza di don Giussani, e non per niente per il suo genio educatore don Giussani è accostato a san Giovanni Bosco.
Abbiamo perciò chiesto di intervenire nel dibattito a monsignor Luigi Negri, arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio, che per decenni è stato strettissimo collaboratore di don Giussani nella responsabilità degli insegnanti e degli studenti delle scuole superiori.
Monsignor Negri, davvero le battaglie degli scorsi decenni per la libertà di educazione sono state ideologiche?
Credo che si tratti di affermazioni molto gravi. Nessuno può avere l’autorità di definire ideologiche, insensate, inutili queste battaglie come se si trattasse semplicemente di opinioni che si possono cambiare quando lo si ritenga opportuno. Bisogna peraltro ricordare che il mondo cattolico ha sempre posto il problema di una autentica possibilità di educazione articolata e quindi pluralistica. Ma CL ha dato forza e nuovi argomenti a questa richiesta costruendo realtà educative coerenti con il tema della libertà di educazione agitato da don Giussani fin dai primi giorni della storia del movimento. Ricordo una frase tra tutte, quella rimasta più famosa: “Mandateci in giro nudi, ma lasciateci la libertà di educazione”.
Crede che certi interventi come quelli ascoltati al Meeting siano un incidente di percorso o possano costituire davvero un cambiamento profondo nella concezione educativa?
Il ripetersi di certi interventi segnala che si tratta di una cosa ben più grave di un incidente di percorso. Nell’ambito di un movimento che incarna la proposta educativa di don Giussani è inconcepibile una immagine di scuola in cui prevale uno scambio di idee alla fine del quale ciascuno ha diminuito un po’ le proprie intenzioni e aumentato le intenzioni opposte. O una concezione di personalità dell’uomo e della sua identità morale e intellettuale che è espressa dalla sua capacità di cambiare opinione. Con buona pace del professor Vittadini, la personalità di un uomo è espressa dallo sviluppo organico delle condizioni proprie che nel dialogo, nel confronto con posizioni diverse matura e acquisisce una profondità sempre nuova. Così diventa capace di interloquire efficacemente con la realtà culturale e sociopolitica circostante.
Davanti a certi interventi, credo che coloro che guidano il movimento debbano dire con chiarezza se e in che misura c’è stato o c’è un distacco radicale dalla concezione di educazione e di scuola che il movimento ha fatto sua per decine di anni. Lo si deve alle migliaia di adulti che, in nome della libertà di educazione, all’inizio degli anni ‘80 si sono sacrificati per consentire al movimento di acquisire il complesso dell’Istituto Sacro Cuore a Milano pagando di propria tasca cifre che erano imponenti per il bilancio delle famiglie; né peraltro posso dimenticare il sacrificio di migliaia di famiglie che hanno a loro tempo fatto nascere scuole libere orientate cattolicamente o hanno rinunciato ai benefici di un certo benessere per sostenere l’ingresso nelle scuole cattoliche dei propri figli. Né posso dimenticare quegli insegnanti – e sono centinaia – che hanno per anni rinunciato molte volte al più comodo posto statale pur di sostenere questa trama di scuole libere cattolicamente qualificate, che rappresentavano per coloro che le frequentavano la possibilità di uno svolgimento critico e sistematico della posizione cattolica.
Quello che manca ai giovani è la possibilità di una autentica educazione. Come ho sottolineato più volte (vedi la tragedia di Manchester), i giovani vengono abbandonati nella vita senza una ipotesi adeguata di lavoro. E questa assenza li rende fragili culturalmente, psicologicamente e affettivamente, non in grado di affrontare tutte le sfide che la realtà pone loro. La realtà non è cattiva, è provocante ma per leggere la provocazione bisogna avere una concezione adeguata di sé e della realtà. E qui emerge il pericolo che si presenti una visione qualunquistica e relativistica come quella che ho sentito espressa in molte posizioni, non solo negli interventi del professor Vittadini. Oggi non è il momento di qualunquismi o di de-ideologizzazione forzata (e quindi violenta) della situazione. È importante invece che le culture presenti nel nostro paese vadano fino in fondo della loro identità, sappiano formulare le loro proposte in modo completo, organico, significativo, così da proporre delle ipotesi di lavoro.
E qui ritorna il tema delle scuole libere. Dopo tanti anni di battaglie è cambiato qualcosa?
È cambiato molto poco. Le forze culturali e politiche laiciste hanno sempre teso a rimandare l’affronto di queste problematiche con l’osservazione che le cose andavano bene così. Ma andavano bene così solo a una parte. È venuto il momento di chiederci come mettere in atto un cammino di confronto, di dialogo che renda possibile il cambiamento della scuola in modo che corrisponda alle esigenze di tutti coloro che vivono nel nostro paese, che hanno in questo nostro paese il diritto a svolgere la propria personalità in piena libertà e con coerenza ideale e pratica. Finché non si ritorna a questo problema e lo si carica di tutta la forza della qualità, la democrazia – come scriveva Hanna Arendt – rischia di essere una pura procedura meccanica e quindi di non riuscire a superare la tentazione del totalitarismo. La democrazia procedurale e totalitaria è un pericolo non lontano dalla situazione sociale e politica del nostro paese.
Lei ha parlato di dialogo, e oggi ovunque si insiste sulla necessità del dialogo, è quasi un’ossessione. Ma si ha l’impressione che il dialogo da metodo sia diventato il contenuto stesso.
Quello che domina oggi è l’ideologia del dialogo, rendendolo fine a se stesso. Ma il dialogo vero è l’espressione di una identità. Don Giussani diceva: «Siamo tanto più in grado di dialogare con tutti, quanto più abbiamo la coscienza della nostra identità, intellettuale e storica, l’abbiamo assimilata adeguatamente, e siamo in grado di proporla in modo ragionevole», “pronti a dare in ogni momento ragione della speranza che è in voi”, diceva san Pietro. Oggi si può sentir dire “siamo in dialogo”, ma questa espressione non ha alcun fondamento e soprattutto non ha alcun contenuto. Così diventa una enorme logomachia in cui tutti parlano ma l’assenza o l’equivoco sulle radici ideali, rende vaniloquente la questione. Quello che oggi domina è il ripetere in modo accanito che bisogna dialogare, “che bello dialogare”, senza riuscire a dare nessun contenuto esperienziale. Il dialogo è una esperienza, è l’esperienza di una identità che consapevole di sé si pone nel contesto della vita sociale, investe questo contesto di vita sociale di proposte chiare ed è in grado di confrontarsi con tutti coloro che sono interessati a questo confronto. Ma la diversità delle identità all’origine è assolutamente indiscutibile.
Riccardo Cascioli
In La NBQ