Dopo Charlie Gard, che aiuterà direttamente dal Paradiso, c’è un altro piccolo combattente da sostenere nella sua battaglia per il diritto alla vita: Alfie Evans. Anche la sua storia viene dal Regno Unito e anche nel suo caso ci sono dei medici che chiedono che ne venga staccato il supporto vitale, mentre i genitori Tom e Kate – giovanissimi e senza grandi risorse economiche – si stanno dando da fare per trovare un ospedale disposto a curarlo all’estero. Alfie, quattordici mesi, è in coma da dicembre nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale pediatrico Alder Hey di Liverpool.
I genitori raccontano che il loro bambino è nato in salute, ma dopo alcune settimane ha manifestato i primi problemi, perché ha iniziato a dormire più del normale e a fare movimenti bruschi con mani, braccia e gambe quando sveglio. In seguito è sopraggiunta un’infezione toracica e da lì c’è stata la corsa in ospedale, dove i dottori hanno inizialmente associato l’insolita stanchezza di Alfie ad alcune patologie tra cui la bronchite, la polmonite e il raffreddore. La prima notte in ospedale, dopo aver ricevuto le prime cure contro le infezioni, il piccolo ha cominciato ad avere gravi crisi epilettiche e spasmi. La continuità di queste crisi ha reso necessario il supporto vitale e i dottori, ignari del perché di questi sintomi, hanno iniziato a trattarlo con massicce dosi di farmaci. Alla fine Alfie è entrato in coma, anche se medici e genitori hanno una visione discordante sulla causa dello stato comatoso: “I dottori ci hanno detto che Alfie è entrato in coma ‘da sé’, ma noi siamo convinti che i farmaci abbiano giocato il loro ruolo”.
Quel che è certo è che nel caso di Alfie non c’è stata finora una vera diagnosi: la sua patologia rimane un mistero. Ma incredibilmente i medici, anziché rinnovare la loro disponibilità a curarlo e a fare il possibile per salvaguardarne la vita come ci si aspetterebbe in un ospedale, hanno suggerito di staccare il supporto vitale. E dopo quanto venuto alla luce con Charlie viene spontaneo pensare che nel Regno Unito l’idea di “lasciar morire” un malato grave – cioè ucciderlo, perché anche qui si tratta di negare una cura di base – sia sempre più ritenuta normale, in ragione del radicamento della cultura eugenetica di cui abbiamo più volte parlato e che in breve rigetta la vita fragile. Questa è la principale similitudine tra i casi di questi due bambini.
Le condizioni di Alfie erano peggiorate drasticamente a fine dicembre, tanto da indurre l’ospedale a chiamare con urgenza la famiglia e affermare che al bimbo rimanevano poche ore di vita. È stato allora che Alfie, secondo quanto riferiscono i genitori, “è stato battezzato, benedetto e ha ricevuto l’Eucaristia”. Papà Tom ricorda che il bambino era di colore “viola e freddo dalla testa ai piedi. Io e Kate siamo stati al suo capezzale tutta la notte, chiedendogli di rimanere con noi”. Era la notte del 31 dicembre e miracolosamente il bambino ha iniziato a mostrare segni di miglioramento. È in quella circostanza che i dottori hanno chiesto per la prima volta di considerare la possibilità di staccargli il supporto vitale, ricevendo il fermo rifiuto della famiglia.
Con il passare delle settimane, contro ogni aspettativa dei medici, la situazione di Alfie è migliorata sensibilmente. Se per una fase ha vissuto un profondo stato di incoscienza, oggi si possono vedere video in cui apre gli occhi e reagisce vistosamente agli stimoli come il solletico. Come avvenuto per Charlie, al quale era stata negata la tracheostomia perché il comitato etico del Great Ormond Street Hospital aveva ritenuto troppo bassa la sua “qualità della vita” per un intervento di lungo periodo, anche Alfie respira con l’ausilio di un tubicino attaccato al naso.
I genitori raccontano che al bimbo è stato staccato per tre volte il ventilatore e che sia arrivato a respirare per tredici giorni senza il suo aiuto, a conferma dei progressi degli ultimi mesi. Il team medico dell’Alder Hey dice di aver tentato tutti i test diagnostici e di aver consultato anche i colleghi del Gosh, senza riuscire a capire il perché della malattia di Alfie e arrivando appunto a chiedere di “lasciarlo morire in pace”. Alla richiesta di fare altre analisi, i genitori scrivono di essersi sentiti rispondere che ci potrebbe volere fino a un anno di tempo per ottenere dei risultati. Un copione già visto. Se è questa la visione dell’ospedale, è come dire che si preferisce la morte certa (che si accelererebbe staccando il supporto) piuttosto che sondare la possibilità di una cura. Pazzesco.
“Dobbiamo combattere per far vivere Alfie ‘in pace’, non per farlo morire ‘in pace’: questo non è nel suo miglior interesse, a meno che dovesse soffrire”, hanno scritto i genitori. Bene ovviamente la loro battaglia per proteggere Alfie, ma per non cadere in una logica distorta è meglio ricordare subito che la sofferenza fa parte di questa vita. Tutte le terapie comportano un certo grado di sofferenza e laddove sono proporzionate al beneficio atteso (come Tommaso Scandroglio ha spiegato in modo approfondito), cioè alla salvaguardia della vita, vanno tentate o proseguite.
I genitori di Alfie riferiscono intanto di aver preso contatti con almeno una dozzina di ospedali, in particolare uno di Miami che ha ricevuto i dettagli sulla situazione clinica. Hanno inoltre già avviato una raccolta fondi per pagare le eventuali spese mediche e legali, perché sanno che c’è il rischio che l’Alder Hey li porti in tribunale per ottenere l’autorizzazione a interrompere le cure per il loro bambino, e sui social media sono già attivi gruppi per sostenere la battaglia di Alfie, animati da tante delle persone che si erano battute per il diritto alla vita di Charlie. La mobilitazione, insomma, è in atto. “Abbiamo visto quale potere hanno gli ospedali e i tribunali”, hanno detto i genitori, profondamente colpiti dal calvario vissuto da Charlie e dalla sua famiglia. “Vogliamo salvare nostro figlio!”. Già, c’è un altro bambino da salvare dalla prepotenza di un potere che vuole stabilire quando bisogna vivere e quando morire. Ci sarà da combattere.
Ermes Dovico
In LaNBQ