Scordatevi la retorica della “dolce morte” dispensata ai quattro angoli del globo dai sostenitori dell’eutanasia. Toglietevi dalla testa l’immagine dell’iniezione/cocktail letale che, liberando l’uomo dal dolore, garantirebbe un addio pieno di pace e serenità come propugnato dagli ideologi del suicidio assistito. «I dati suggeriscono che la visione generale dell’eutanasia e del suicidio assistito come modi rapidi, impeccabili e indolori di morire è semplicemente falsa».
«DA POCHI PER POCHI». È questa la conclusione di uno studio pubblicato sul Medical Journal of Australia da Ezekiel Emanuel, docente presso l’università della Pennsylvania, uno dei più importanti studiosi di bioetica degli Stati Uniti e tutt’altro che conservatore. Il suo curriculum è quello di un liberale, così come lo è quello del fratello (Rahm, a capo dello staff di Barack Obama).
Il professore, dopo avere analizzato i dati provenienti da diversi paesi dove eutanasia e suicidio assistito sono legali (Oregon, Washington, Belgio, Olanda), osserva innanzitutto che «la legalizzazione di eutanasia o suicidio assistito (Pas) è davvero un intervento marginale nell’ambito della cura del fine vita, perché è qualcosa sponsorizzato da pochi per pochi e che, pur godendo di un’enorme attenzione da parte dei media, non migliora in alcun modo la vita del 99 per cento dei pazienti in fin di vita che soffrono».
MA QUALE DOLORE? Detto questo, Emanuel smonta il primo luogo comune sull’eutanasia: che sia cioè un mezzo per porre fine al dolore di malati gravi. Infatti, scrive, «anche se molte persone sane ritengono che porre fine al dolore sia la ragione per cui in futuro potrebbero desiderare l’eutanasia, i dati dicono altro. In Oregon, ad esempio, meno del 33 per cento dei pazienti prova dolori che non riesce a controllare. E in generale sono molto pochi i pazienti che vogliono l’eutanasia per via del dolore. La maggior parte, piuttosto, cita come ragione depressione, disperazione, stanchezza di vivere, perdita del controllo o della dignità. Tutte queste ragioni sono psicologiche e non possono essere migliorate da una dosa di morfina, ma da una qualche forma di terapia».
DEPRESSIONE E STANCHEZZA DI VIVERE. Nonostante questo, sono pochi coloro che prima di ottenere l’iniezione letale vengono sottoposti alla visita di uno psicologo. In Oregon e Washington, «meno del 4 per cento». Secondo il bioeticista, «dobbiamo cambiare la nostra immagine di cosa spinge le persone a desiderare l’eutanasia. Perché l’immagine che la maggior parte delle persone ha, cioè di pazienti che si contorcono tra mille dolori nonostante la morfina, è semplicemente sbagliata».
ALTRO CHE “DOLCE” MORTE. Il secondo luogo comune che il docente universitario contesta è quello secondo cui l’eutanasia garantirebbe una morte “dolce”, pacifica, senza sofferenze. «Questa è un’opinione diffusa, ma sbagliata». Come tutte le procedure mediche, infatti, anche le iniezioni letali possono «andare storte». Riprendendo i risultati di uno studio condotto in Olanda, «il 5,5% di tutti i casi di eutanasia e suicidio assistito presenta problemi tecnici e il 3,7% complicazioni. In un altro 6,9% dei casi ci sono problemi nel portare a termine l’eutanasia». I problemi tecnici riguardano, ad esempio, la difficoltà nel trovare la vena del paziente o quella di amministrare il farmaco per via orale. Le complicazioni invece includono nausea, vomito e spasmi muscolari. Nell’1,1% dei casi, invece, il paziente non muore ma si risveglia dal coma.
L’OSSESSIONE DEI MEDIA. Alla luce di questi dati, conclude Emanuel, «i motivi per legalizzare eutanasia e suicidio assistito appaiono ancora meno persuasivi. Questi interventi non migliorano la situazione della maggior parte dei pazienti in fin di vita, non aiutano chi soffre e sono molto lontani dall’essere rapidi, impeccabili e indolori. Perché allora c’è tutta questa foga nel voler legalizzare strumenti per porre fine alla vita di una piccola minoranza di pazienti depressi, preoccupati dalla perdita dell’autonomia o stanchi di vivere?». Ecco la risposta del professore: «Credo che i media dovrebbero smettere di essere così ossessionati dall’eutanasia, come se fosse la panacea per migliorare la cura del fine vita, e concentrarsi su ciò di cui c’è veramente bisogno per migliorare la vita dei malati in fin di vita, a partire dal trattamento adeguato dei sintomi a domicilio».
LeoneGrotti, da Tempi