Ma i bambini, cosa c’entrano i bambini? Perché usarli a fini ideologici e propagandistici? La celebre rivista National Geographic uscirà il 27 dicembre con una doppia copertina dedicata alla disforia di genere in età pediatrica. Nell’immagine dove compare Avery Jackson, nove anni, si può leggere: «La cosa migliore di essere una ragazza è che ora non devo più fingere di essere un ragazzo».
L’argomento, si sa, è delicato, ma questo pare non aver preoccupato troppo la direzione della rivista che non si è fatta troppi scrupoli a trasformare casi assai rari in simboli di una battaglia culturale. Secondo le statistiche un bambino su cinquemila nasce con gravi difetti anatomici che, in casi ancora più rari, rendono difficile la determinazione del sesso. In altri casi, sempre molto limitati, alcuni bambini prima dei sei anni soffrono nell’identificare esattamente il proprio sesso, anche se nell’ottanta per cento dei casi superano questo disagio negli anni successivi.
L’inchiesta del National Geographic, anticipata da alcuni lanci di stampa, non si cura di ciò: usa dei bambini per spacciare la propria ideologia, anzi utilizza le loro parole per farli apparire come dei “perseguitati” dalla società che non li comprende e li mostrifica. È ovvio che tale richiesta sia da ascoltare e che queste situazioni, di oggettiva sofferenza, siano da comprendere e aiutare. Ma proporre una carrellata di minorenni che ripetono a macchinetta le parole d’ordine dell’ideologia gender, che ci vogliono convincere che, sì, è vero, esistono più di cinquanta modi per identificare la propria natura, è un’operazione rispettosa della loro intimità o è una forzatura ideologica? Chi è che sta mostrificando questi innocenti?
Il gender non esiste, dicono. Ma l’ideologia gender esiste eccome.
Emanuele Boffi in Tempi