L’ Spirito Santo anima tutta la vita ecclesiale: il battesimo, l’ eucaristia, la remissione dei peccati, la testimonianza cristiana, la custodia della Rivelazione e la sua comprensione sempre nuova e crescente, la vita di carità, la tensione verso il mondo futuro.
Ogni evento salvifico trova in lui il segreto protagonista. È il vincolo tenace e silenzioso che ci connette con il Risorto. “ Ricevete lo Spirito santo”, è parola eterna che il Signore Gesù dalla destra del Padre non finisce di pronunciare e proprio da questa Pentecoste perenne nasce, sussiste e vive la Chiesa.
“ Ricevete”
“ Labete”, dice il testo, cioè prendete. Non è soltanto dato da Cristo, deve anche essere “preso” da me, accolto come il principio dei miei pensieri, dei miei affetti, delle mie azioni; deve dimorare in me come si identificasse con il mio spirito creato. Egli è per eccellenza colui che rinnova, libera, inquieta, unifica, esalta.
Proprio per questo è così faticoso aprirsi a lui. Tutto in me si oppone all’ accettazione dello Spirito: il gusto dell’ inerzia, che mi fa rifuggire da ogni strada inconsueta e d’ istinto mi oppone a tutto ciò che non sia già familiare ai miei pensieri; l’ orrore di esercitare veramente e radicalmente la mia libertà, sicché il riparo di una norma o di un uso acquisito mi sembra sempre preferibile al rischio, alle titubanze di una opzione personale; il segreto rancore verso qualche “profeta”, che viene a disturbare la tranquillità delle mie opinioni e delle abitudini convenzionali; la ripugnanza a uscire dalla solitudine compiaciuta delle avventure interiori per entrare in comunione coi miei fratelli, anche con quelli che mi sembrano spiritualmente anche lontani; la difficoltà di sciogliere il gelo scettico di chi non si aspetta più niente di grande e di veramente nuovo, e di lasciarmi contagiare dall’ entusiasmo dei semplici.
Si muove a stento lo Spirito nel mondo intorpidito dell’ anima mia.
Mi è invece tutt’altro che faticoso parlare di lui. E così finisco spesso per violare, anche a proposito dello Spirito, il secondo comandamento del Decalogo. Eppure quanto meno se ne sente parlare, tanto più crescono le probabilità di essere davvero alla sua presenza.
Citarlo continuamente in giudizio – ben sapendo che le smentite immediate non sono tra le sue consuetudine- non significa averlo per ciò stesso dalla propria parte appellarsi a lui non vuol dire essere ispirati da lui.
Non mi è perciò consentito suffragare continuamente le mie posizioni coi suoi pensieri, come se possedessi il numero telefonico e mi fosse facile conoscere giorno per giorno le direttive. Non sulle mie labbra, ma nella mia vita credo vadano ricercati i segni della sua azione trasformante: la bontà verso tutti, persino verso i miei fratelli nella fede e i miei superiori; la mitezza dei miei propositi; il cuore dolente per le colpe mie e le sofferenze degli altri; il gusto della contemplazione delle cose di Dio; la castità, che mi rende attento alla realtà e agli avvenimenti della vita interiore; l’ amore che tutto cerca di giustificare, di ricomporre; l’attenzione al Padre e alla sua volontà; il senso della mia esiguità e lo smarrimento di vedermi coinvolto in una vicenda di misericordia e di donazione troppo più grande di me: ecco l’ impronta di questo Ospite discreto, che ama lavorare nel silenzio e perciò rifugge dalla compagnia della gente troppo ciarliera.
L’ invito a soggiornare nel deserto e l’ appello alla segregazione sono di solito agli inizi di ogni sua missione tra gli uomini. Così è stato per Paolo, e così è stato per Gesù alle soglie della sua vita pubblica, quando lo Spirito, secondo la pittoresca espressione di Marco, “ lo scaraventò nel deserto” ( Mc 1,12 ).
( Cardinal Giacomo Biffi in: Quando ridono i cherubini – ed: ESD )